lunedì 5 dicembre 2011

Tra due giganti della fede. Mons. Adoukonou ricorda l’esperienza vissuta a Ouidah accanto al Papa in preghiera sulla tomba del comune amico cardinale Gantin (Ponzi)

Il vescovo Barthélemy Adoukonou ricorda l’esperienza vissuta a Ouidah accanto al Papa in preghiera sulla tomba del comune amico cardinale Gantin

Tra due giganti della fede

Mario Ponzi

È stato l’ultimo allievo al quale il professor Joseph Ratzinger ha conferito la laurea prima di abbandonare l’insegnamento a Ratisbona per guidare l’arcidiocesi di Monaco. Ma soprattutto, il vescovo Barthélemy Adoukonou è stato l’inconsapevole artefice dell’amicizia ultradecennale che ha legato il suo antico docente e il suo amato padre spirituale, il cardinale Bernardin Gantin. Oggi monsignor Adoukonou ricopre l’incarico di sotto-segretario del Pontificio Consiglio della Cultura. Beninese, ha avuto il privilegio di rivivere a Ouidah «l’incontro» tra Benedetto XVI e il compianto cardinale Gantin. Ha pregato con il Papa sulla tomba del suo padre spirituale e maestro, e ha potuto riassaporare il senso di un legame tanto profondo che neppure la morte ha potuto infrangere. Nell’intervista rilasciata al nostro giornale monsignor Adoukonou rivive quei momenti.

Come ha conosciuto il cardinale Gantin?

Nel 1957 ero al terzo anno di seminario minore a Ouidah quando giunse il primo vescovo africano da Roma: era monsignor Bernardin Gantin. Tutti noi seminaristi lo accogliemmo con tanta gioia, prima a St. Gall e poi al seminario minore Santa Giovanna d’Arco. Nel suo discorso fece cenno a una vicenda che gli era capitata mentre visitava la Francia, prima di tornare in patria. Era nella Moselle, dove aveva incontrato un anziano parroco, Alfonso Schmitt, molto aperto alla missione e alle necessità dei missionari: lo era al punto che aveva pazientemente e scrupolosamente accumulato i risparmi della sua vita per sostenere almeno un missionario africano che un giorno sarebbe diventato sacerdote. Al vescovo aveva affidato l’incarico di individuare il seminarista e di provvedere, con il suo lascito, alla sua completa formazione. Eravamo tutti meravigliati dal cuore missionario di questo parroco e dalla sua generosità. Qualche minuto più tardi, quando il vescovo si recò nella sua stanza, il rettore padre Plumelet venne a cercarmi e mi condusse da monsignor Gantin dicendogli: «Ecco il giovane!». Da quel momento in poi egli mi trattò come suo figlio spirituale.

Ci racconta di quel giorno in cui nacque l’amicizia che ha poi legato il compianto cardinale Gantin a Papa Ratzinger?

Nel mio iter formativo, dopo essere passato per Roma, a Propaganda Fide, e dopo l’insegnamento in seminario, sono stato mandato a Ratisbona, in Germania, per la laurea in teologia. Joseph Ratzinger era il professore che ho scelto. In quegli anni sono tornato spesso a Roma a trovare Gantin, che allora era alla congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Un giorno, a corso finito, il professor Ratzinger mi chiamò per dirmi che avremmo dovuto anticipare di un mese la discussione della mia tesi. Non mi disse il motivo, lo capii solo quando, uscendo dall’aula, mi trovai in mezzo a una selva di fotoreporter e di giornalisti: volevano fotografare il professor Ratzinger con l’ultimo dei suoi allievi al quale aveva conferito la laurea. Era stato eletto, infatti, arcivescovo di Monaco e stava per lasciare l’università. Dietro mia richiesta, monsignor Gantin mi fece il regalo di venire a Monaco per assistere con me all’ordinazione episcopale del mio professore. Fu tra i vescovi che gli imposero le mani. E fu — se ricordo bene — l’unico vescovo africano a farlo. In quell’occasione si conobbero. E poi hanno compiuto uno straordinario cammino ecclesiale insieme. Conservo per me il ricordo e la gioia di essere stato come lo strumento scelto dalla Provvidenza per farli incontrare.

Ricorda Gantin più come maestro o come testimone?

Lo ricordo soprattutto come padre. Naturalmente è stato un vero testimone della fede, un uomo di grande cuore, con un’apertura e una semplicità di vita che l’hanno sempre reso rispettoso verso tutti, dai più grandi ai più piccoli, dai potenti ai più umili. Entrando in Curia, a Roma, ho sempre sentito parlare del suo grande cuore capace di raccogliere l’amore di tutti e di restituirne altrettanto a tutti. Dunque, lo ricordo sia come padre, sia come testimone, sia come maestro. Mi ha insegnato soprattutto la cultura del cuore. Ne era ricchissimo. Mi diceva sempre che il cuore vale molto di più dell’intelligenza. E lui era un uomo intelligentissimo. Ricordo poi il suo sguardo, capace di sciogliere anche i più duri, la sua grande simpatia, il suo sorriso.

Come ha vissuto il momento di questo ultimo «incontro» tra il cardinale e il Papa?

Sono stato felice di trovarmi di nuovo tra i due miei più grandi maestri di vita e di fede. Il primo mi ha portato sino al sacerdozio, il secondo mi ha chiamato a Roma di nuovo accanto a sé. Mi ha portato anche con lui in Benin e ha voluto che tornassi nella mia terra con la dignità vescovile. Dunque si può immaginare cosa ho provato in quei momenti di silenzioso raccoglimento davanti alla tomba del cardinale Gantin. Un silenzio per me molto intenso. Pieno di quella forza che fa dell’amore il legame più solido che ci sia tra le persone. Da quell’incontro sono uscito ancor più rafforzato nella mia fede e nel mio proposito di dare tutto me stesso al servizio di quell’amore di Cristo e per Cristo che ha legato indissolubilmente questi due grandi uomini di Chiesa.

Come ha trovato il suo Paese?

Direi cresciuto nella fede. È il frutto del lavoro di tanti missionari che hanno diffuso il Vangelo in Benin, mettendo le loro mani nelle piaghe, fisiche e morali, della mia gente. Mi torna alla mente quanto sia falsa la cosiddetta teoria delle tre «m» — andata in voga per tanto tempo e che a volte viene riproposta — secondo la quale i mali dell’Africa dipenderebbero da militari, mercanti, missionari. Ho raccolto proprio tra la gente tante testimonianze sul lavoro svolto dai missionari. Nessuno ha fatto quello che per il mio popolo hanno fatto loro. Beneficiato dal dono di far parte del seguito papale, ho potuto vivere dal di dentro quell’amore intenso per la Chiesa che esprimono oggi i figli spirituali di quei missionari. Ho capito e visto quanto la mia gente ama il Papa e quanto il Papa ama la mia gente. C’è stata un’intensità, una manifestazione della vitalità della fede che si esprime attraverso un’anima gioiosa, quella naturale del popolo. Sulla tomba del cardinale Gantin ho sentito scorrere questa corrente d’amore tra il mio popolo, il Papa e la mia Chiesa.

(©L'Osservatore Romano 5-6 dicembre 2011)

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