Una mostra a Sondrio
In confidenza con il sacro
di LUCETTA SCARAFFIA
Anche se sono snodabili e svestite, le statue sacre "nude", cioè destinate a essere rivestite da appositi abiti e talvolta anche arricchite da veri capelli, non somigliano alle bambole: si distinguono per l'espressione, seria o addolorata, ma sempre in un certo senso misteriosa e al contempo maestosa. E si sente intorno alle loro figure - le quali, prive delle vesti, rivelano semplicità e povertà - la devozione che le circonda o le ha circondate, almeno sino a qualche tempo fa.
Sono soprattutto le statue lignee di Maria - a volte con il bambino fra le braccia, anche lui rivestito - che, per influenza dell'uso spagnolo, si trovano in molte parti d'Italia, fra cui la Lombardia, dove a Sondrio sono ora esposte nella mostra "In confidenza con il sacro. Statue vestite al centro delle Alpi". Statue che, proprio grazie ai vestiti, cercano una più forte verosimiglianza con gli esseri umani che le venerano. Offrendo una prova concreta che l'Incarnazione è vera e che con il sacro, nella tradizione cristiana, si può arrivare a un contatto materiale.
Per questo al sacro, come suggerisce il titolo della mostra, ci si può avvicinare con una certa confidenza: lo sanno bene le devote che hanno il privilegio - spesso trasmesso di generazione in generazione - di pulire le statue, di rivestirle amorosamente con abiti sontuosi, dono dei fedeli, e di ingioiellarle. Come san Francesco, che a Greccio "baciava con grande devozione le immagini del bambinello e balbettava parole di dolcezza alla maniera dei bambini" ha ricordato Benedetto XVI la notte di Natale.
Certo, una Madonna che si può toccare, vestire, carezzare - rispettosamente, beninteso - e magari baciare, suscita emozioni e sentimenti forti e, da quello che si coglie dai saggi del catalogo che accompagna la mostra, fa nascere anche un forte legame fra la statua e il gruppo umano che se ne prende cura, quindi con il luogo dove è venerata. Come capita alle monache cistercensi di Santa Susanna a Roma, che accudiscono con emozione e premura le loro preziose e antiche Madonne e i Bambinelli, rinnovando vestiti e capelli quando diviene necessario.
Così anche i fedeli valtellinesi, davanti alla repressione delle statue vestite avviata dalle gerarchie ecclesiastiche di fine Ottocento, piuttosto che rinunciare alle loro Madonne le hanno spesso trasferite in cappelle di montagna e per così dire nascoste, aspettando che la tempesta passasse. Adesso che la tempesta è passata, questa bella mostra le riporta all'onore del mondo e della devozione, grazie a restauri e studi che restituiscono le storie di cui ogni statua è depositaria.
Ci sono stati momenti storici in cui, a causa della pressione della cultura esterna, anche nella Chiesa ci si è un po' vergognati degli aspetti più concreti della devozione dei fedeli: durante la Controriforma, per effetto delle critiche dei protestanti, la gerarchia ecclesiastica ha stabilito regole rigorose per una rappresentazione visiva del sacro che garantisse la severità della fede e la tenesse lontana da ogni possibile contaminazione con il mondo materiale. Il mantenimento delle immagini sacre - che invece i riformati tendevano a distruggere come segno di idolatria - fu garantito, ma si dovette pagare questo scotto alla pruderie dei critici. A fine Ottocento invece furono gli scienziati positivisti a descrivere la Chiesa come un antiquato serbatoio di superstizioni e anch'essi, in molti casi, provocarono un rigetto di tradizioni ritenute troppo vicine alla magia delle favole.
Così, a poco a poco - scrive Cristina Campo - andò perduta la percezione dei "sensi sovrannaturali": quell'antica sensualità trascendente venne cancellata dalla Riforma e dall'Illuminismo, quando "ogni prova fu puntualmente superata dalla dottrina ma sembrò strappar via con sé un lembo della corporeità raggiante, della vivida pelle dell'antica vita cristiana". La tradizione però è ancora viva se, come ha detto il Papa nell'omelia di Natale, "nel bambino nella stalla di Betlemme, si può, per così dire, toccare Dio e accarezzarlo".
(©L'Osservatore Romano 29 dicembre 2011)
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