La mano tesa di Cuba al Papa
Di don Filippo Di Giacomo
A Cuba, le cose importanti non accadono in fretta. Era il 1989 e Fidel Castro, in un’intervista concessa ad alcuni giornali europei, annunziò al mondo l’intenzione di invitare Giovanni Paolo II nell’isola caraibica.
Nonostante le positive reazioni vaticane ci vollero infatti dieci anni circa, gennaio 1998, per far celebrare messa al Papa in Piazza della Rivoluzione a L’Avana.
Nel frattempo, Fidel Castro, giunto a Roma a novembre del 1996 per il vertice Fao, si era recato in Vaticano esibendo, per la prima volta dopo la rivoluzione, una mise inconsueta: un impeccabile doppiopetto blu.
Tra qualche settimana Benedetto XVI sarà il secondo pontefice a giungere a Cuba, quattordici anni dopo il suo predecessore, sei anni e mezzo dopo la sua elezione a Papa. L’annuncio, questa volta, è stato dato da Raúl Castro al parlamento cubano, chiosato con la decisione «umanitaria e sovrana» di solennizzare l’arrivo con «l’indulto a 2.900 detenuti» politici, una risposta «alle numerose richieste dei familiari e delle istituzioni religiose». Sono anni che ipotesi di un dopo-Castro affidato alla mediazione della Chiesa Cattolica circolano, ma in realtà ciò che sta avvenendo nell’isola caraibica è una lezione di storia civile più ampia, un recupero democratico fatto di solidarietà e dialogo. Un processo lungo, iniziato a metà anni Ottanta, quasi in contemporanea con quanto avveniva in Polonia, nella ex Germania Popolare e nei Paesi dell’ Est Europa. E come allora, anche a Cuba si dimostra come la riconquista della libertà religiosa preceda sempre i cambiamenti sociali e politici radicali. Però diversamente da quanto avvenuto in Europa, qui la Chiesa riesce a mantenere, ormai da 25 anni, la sua credibilità come mediatrice e garante di riforme liberalizzatrici, disegnate da un regime desideroso di evolvere, uscendo dal comunismo, in modo pacifico. Ha scritto Gianni Minà nel 2004: «Il Papa che più ha contribuito a sconfiggere il comunismo, ha insomma ribadito…una linea di comportamento verso Cuba assolutamente diversa e più corretta da quella di molti dei partiti che si dichiaravano comunisti o di sinistra». E nonostante i giornali non amino ricordarlo, c’erano gli uomini del Papa ad accreditare gli uomini di Cuba di fronte a quei Paesi (Francia, Gran Bretagna, Germania, Italia, Austria, Grecia, Portogallo e Svezia), ai quali Miguel Angel Moratino, ministro degli Esteri del nuovo governo spagnolo di José Luis Zapatero, chiedeva il ristabilimento di normali relazioni diplomatiche.
Quella cubana, è una realtà ecclesiale che ha saputo incarnarsi in una realtà storico-sociale in continua evoluzione, una Chiesa povera, che non gestisce alcuna forma di potere, che condivide con i fedeli gioie e dolori ed è presente nella realtà storica del proprio Paese con una chiara vocazione di pace. Anche gli anni bui dei confronti ideologici, in quella parte dell’emisfero, hanno avuto una forma particolare: a Cuba, la Chiesa non è mai stata perseguitata come in altri Paesi del socialismo reale.
Quanto avveniva nei luoghi di culto, non interessava al governo. Erano le attività esterne ad essere controllate e regolamentate con pugno di ferro. E così, piano piano, che divenne impossibile animare e gestire tutte le iniziative di apostolato che gli Istituti religiosi abitualmente svolgono. Tanto che, in attesa di tempi migliori, suore e sacerdoti di altra nazionalità, con una scelta rivelatasi assai miope e motivata soprattutto da pregiudizi anticubani coltivati nelle rispettive patrie, preferirono abbandonare l’Isola. Ne è risultata una Chiesa demondanizzata, senza fardelli di privilegi materiali e di collateralità politiche, sobria, con chiara identità di fede testimoniata e che, con coraggiosa prudenza, ha puntato sulle comunità di base conducendo a buon esito le migliori istanze della teologia della liberazione: unità, apertura e incarnazione nel popolo.
E se teologia della liberazione, secondo una glossa sintetica ma efficace, «è saper guardare il mondo con i propri occhi», allora senza reticenze deve iscrivere nei propri annali Jaime Ortega, Pedro Meurice e Adolfo Rodriguez, i nomi dei vescovi cubani che con due documenti episcopali programmatici (nel 1986 e nel 1993) hanno consegnato al loro Paese la via maestra per una transizione pacifica verso il mondo globalizzato. «Il popolo è saggio», hanno scritto, «e ama risolvere i problemi nella libertà, nell’amicizia e nella franchezza. E anche se non condivide la politica di Castro, non vuol dire che egli non sia amato dal suo popolo». Pensando ai dirimpettai di Miami hanno aggiunto: «Sbaglia chiunque affami un intero popolo, i problemi del Paese si risolvono con la solidarietà e il dialogo, innanzitutto, tra i cubani». Il Papa e la Chiesa ci credono. Altri, come scrive Minà, indicano Cuba come la sola responsabile «se la maggior parte dei sogni di chi era di sinistra in Europa quarant’anni fa non si sono avverati».
© Copyright L'Unità, 29 dicembre 2011 consultabile online anche qui.
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