Il Pontefice porta conforto ai detenuti
Benedetto XVI: sovraffollamento e degrado possono trasformare il carcere in una doppia pena
Giovanna Chirri
ROMA
A Omar l'africano sono scese le lacrime sul volto ascoltando la risposta del Papa.
In visita a Rebibbia, carcere nella estrema periferia romana dove 1.740 detenuti stipano celle capienti per 500, Benedetto XVI ha suscitato commozione e contentezza. Ha manifestato gioia per «l'accoglienza». Ha ricordato che dove c'è «un carcerato, un affamato, lì c'è Cristo che attende la nostra visita». Ha invitato a non badare a chi parla male di noi, magari «con ferocia», magari anche contro il Papa: se alcuni sono maldicenti, tanti mostrano amore verso i carcerati come accade, ha raccontato, a casa sua, nella «mia famiglia papale», in cui alcune suore sono amiche dei detenuti, e spediscono loro lettere e pacchi regalo.
La visita ai carcerati, dovere evangelico particolarmente raccomandato nel tempo di Avvento, si è svolta secondo il programma stabilito con accoglienza calorosa e emozione tra detenuti, personale e autorità. Ricevuto sul piazzale del nuovo complesso circondariale dal neoministro della Giustizia Paola Severino, dal capo del Dipartimento della amministrazione penitenziaria Franco Ionta, dal direttore di Rebibbia, Carmelo Cantone e da don Sandro Spriano, da 21 anni cappellano tra quelle mura, papa Ratzinger è entrato nella chiesa dedicata al Padre Nostro, ha pronunciato un discorso, ha risposto a braccio alle domande dei detenuti. Poi un breve giro dei locali, con una sosta-colazione a base di torta sacher e strudel preparati dai detenuti, la benedizione dell'albero piantato per ricordare la visita e il congedo con incoraggiamento: «Grazie per l'accoglienza, la luce del Natale sia con voi, perchè anche se cadiamo possiamo rialzarci». «Amnistia, amnistia, amnistia», hanno gridato i carcerati mentre la vettura papale si allontanava da Rebibbia.
Dopo il saluto dell'emozionata ministro Severino, che appena due giorni fa ha annunciato un decreto per decongestionare i penitenziari concedendo gli arresti domiciliari a chi sconta gli ultimi 18 mesi della pena, il Papa nel discorso preparato ha denunciato il «sovraffollamento e il degrado» che possono trasformare il carcere in una «doppia pena» e chiesto alle istituzioni di verificare «strutture, mezzi, personale» e valutare la possibilità di "pene non detentive"».
A tratti non meno politico, ma certo molto toccante, lo scambio di domande e risposte tra Pontefice e carcerati, tra loro Omar l'africano, Federico che parla per gli ospiti del reparto infermeria e sieropositivi, Alberto, accento tipicamente romano e padre di una bimba di due mesi, Gaia, mostrata in foto a Benedetto XVI. Cinque domande, e una «Preghiera dietro le sbarre», scritta da un carcerato e letta al termine del botta e risposta, con quella invocazione a Dio «tu non ti sei dimenticato di me, anche se vivo spesso lontano dalla luce del tuo volto» che ha probabilmente ispirato le parole di Benedetto XVI al momento di congedarsi.
Rispondendo ai detenuti Benedetto XVI, pienamente a suo agio e con tono partecipe, ha spiegato che la visita a Rebibbia era «per mostrarvi amicizia», ma era anche un «gesto pubblico che ricorda ai nostri concittadini» le difficoltà del carcere, e ha espresso la speranza che, in linea con gli auspici del ministro Severino, «il nostro governo e i responsabili» riescano a «fare il possibile per migliorare la situazione, realizzando una giustizia che aiuti a tornare nella società». Altri temi affrontati nello scambio con i detenuti, l'importanza di essere padre e di poter tenere in braccio la figlia, la difficoltà dell'Occidente ricco ad essere felice, forse a causa dei troppi beni, il senso della confessione sacramentale.
Gli istituti di pena italiani ospitano 68.144 detenuti in uno spazio per 45.654 e, come ha detto il ministro Severino le aride cifre non rendono «la terribile condizione e il dolore delle persone». Per questo, prossimi al Natale, Benedetto XVI si è fatto vicino idealmente a tutti loro.
Ha parlato poco il ministro della Giustizia, Paola Severino. In visita con il Pontefice al carcere romano di Rebibbia, il guardasigilli ha preferito che a parlare fosse una lettera, inviatale da un detenuto siciliano, Alfio Diolosa, che si trova recluso nel braccio di «alta sicurezza» del carcere cagliaritano di Buoncammino.
Il ministro si è limitato a sottolineare che «la custodia cautelare in carcere deve essere disciplinata in modo tale da rappresentare una misura veramente eccezionale» e che la riparazione deve accompagnarsi alla rieducazione. «Da tempo – ha concluso – ci confrontiamo con dati che testimoniano una situazione di eccezionale difficoltà e disagio. Siamo consapevoli che i dati sintetizzano, in aride quantificazioni numeriche la terribile condizione di persone che racchiudono nel loro cuore esperienze, sofferenze e speranze».
E tutto questo racconta, in fondo, anche la lettera del detenuto siciliano letta da Severino davanti al Pontefice, che si chiude con una frase quasi evanelica: «Se aiuteremo la barca di nostro fratello ad attraversare il fiume, anche la nostra barca avrà raggiunto la riva».
© Copyright Gazzetta del sud, 19 dicembre 2011
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