Elezione al femminile per la prima volta in una facoltà teologica pontificia
Teologia con voce di donna
A colloquio con suor Mary Melone, nuovo decano all’Antonianum
Giulia Galeotti
Durante un’insolita ottobrata romana, puoi scoprire tante cose. Ad esempio che l’estate di san Martino quest’anno ha anticipato il suo treno; che al bar dell’Antonianum fanno il cappuccino più buono della zona di San Giovanni; che il nuovo decano della facoltà di teologia della stessa università, suor Mary Melone, è una quarantasettenne che dimostra dieci anni di meno.
Spezzina, francescana, laurea in pedagogia, dottorato in teologia, specializzazione in dogmatica, già preside di scienze religiose, oggi, a nemmeno cinquant’anni, è decano di teologia nella Pontificia Università Antonianum. Un percorso ragguardevole!
Ho iniziato a insegnare qui una decina di anni fa, dopo avervi fatto quasi tutta la mia formazione teologica. È un ambiente che conosco bene. Nonostante la facoltà di teologia sia la più grande dell’università, è comunque una facoltà in cui ci conosciamo tutti (alcuni dei miei attuali colleghi sono stati miei professori). Ho sempre trovato molta fiducia, molta stima da parte dell’ambiente accademico. L’Antonianum è retta dall’ordine dei frati minori e per solito la carriera accademica è riservata a loro. Ma nei miei confronti l’ordine ha sempre manifestato grande fiducia e stima dandomi la possibilità di una carriera accademica. Sono tra i pochi professori non dell’ordine ad avere la possibilità di una stabilità.
L’età media del corpo docente è così giovane o lei è un’eccezione?
In effetti il corpo docente ha un’età media tra i quaranta e i cinquanta anni (anche se ovviamente non mancano le eccezioni). Certo, molti di questi professori sono in via di stabilizzazione, però sì, effettivamente l’età è abbastanza giovane. Ma non è un caso: su questo si riflette il grande sforzo che l’ordine dei minori sta facendo. Considerando i problemi di vocazioni, è un grande impegno e una scelta precisa dedicare tanti frati e investire tante forze giovani nell’insegnamento.
Alla facoltà di teologia lei è una delle poche donne?
Sì, siamo tre donne (due religiose) su un totale di ventiquattro docenti. Le docenti sono più numerose (sette, di cui una sola laica) all’Istituto Francescano di Spiritualità e all’Istituto Superiore di Scienze religiose (dieci, io sono la sola religiosa), giacché le discipline sono meno legate alla sfera teologica.
In lei è nata prima la vocazione religiosa o quella da studiosa?
Sono sempre stata molto studiosa! Proprio la passione per lo studio è stata una delle cose per le quali ho più esitato ad abbracciare la vita religiosa. Anche perché nella mia congregazione all’inizio (e giustamente!) mi hanno detto che non sceglievo un titolo di studio, sceglievo una forma di vita. Nel mio istituto comunque c’è sempre stata la tradizione di lasciare molto spazio alla formazione religiosa delle giovani sorelle, quindi ho avuto la possibilità di frequentare sia la Libera Università Maria Santissima Assunta (che allora era ancora un’università privata per giovani ragazze o religiose; alla Lumsa devo molto in termini di metodo), poi è arrivato l’orientamento alla teologia, che quasi mi ha sorpreso. Non avrei mai pensato di tornare agli studi teologici! È stata, come diciamo noi, una scelta fatta insieme. Il frutto di un discernimento che però mi ha affascinato.
La sua metodologia coniuga aspetto storico e aspetto teologico.
Negli studi mi dedico soprattutto all’approfondimento teologico del pensiero dei grandi maestri, in particolare a Riccardo di San Vittore e Antonio di Padova. Antonio è una figura piuttosto emblematica perché viene da una formazione vittorina (in quanto canonico agostiniano) ed è passato poi ai frati francescani, divenendo il primo grande studioso del francescanesimo (a lui è dedicata la nostra università). Storico e teologico significa compiere una ricostruzione del pensiero e della formazione dei loro scritti, possibilmente con strumenti adeguati, per giungere alla conoscenza nel tentativo di elaborare un pensiero teologico che sia comprensibile, che possa essere messo in luce nella sua attualità che è ancora molto forte. Molto forte soprattutto in questi grandi maestri, come per Riccardo di San Vittore con la sua visione della relazionalità, tema che nella teologia pone degli interrogativi molto profondi. Dunque sì, l’indirizzo dei miei studi è quello di indagare i testi tentando di enucleare una linea di pensiero che possa essere significativa per l’oggi.
Ha scritto della necessità di evitare la tentazione di voler per forza riempire i vuoti documentari.
Non ricordo assolutamente questa mia espressione! (ride) Credo comunque che questa tentazione l’abbiamo. Quando si frequenta un autore, si finisce per affezionarvisi. Ricordo la mia prima difesa di laurea con il professor Pieretti, che mi aveva assegnato come autore Gabriel Marcel. Ebbene, in sede di difesa mi sentii dire da lui: «la presentazione che la studente fa è abbastanza oggettiva, si respira nella sua tesi una grande simpatia per l’autore». Rimasi molto colpita: non pensavo di aver fatto una presentazione «abbastanza oggettiva». Pensavo di aver fatto una presentazione oggettiva! La frase del professore mi è rimasta impressa perché poi ho sempre verificato che studiando un autore si instaura una simpatia che rischia di condizionare l’oggettività. Questo anche per quanto riguarda la ricostruzione del pensiero: molte volte, soprattutto nei confronti di alcuni autori, il desiderio di portare alla luce il pensiero, di riscoprirne l’attualità, la significatività per l’oggi, ci fa un po’ forzare quello che abbiamo. Invece bisognerebbe accettare i vuoti che ci sono. Non tutto ciò che i documenti dicono è adatto per noi, o può essere utilizzato come noi vorremmo. Pensi ad Antonio, notoriamente oggetto di una questione perché nei suoi sermoni non cita mai san Francesco. Uno ci rimane un po’ male! Ma come, il primo grande francescano, la prima grande opera di letteratura teologica non cita mai Francesco? Allora in questo caso cerchiamo di giustificare, di trovare i temi francescani più classici per dire: vedi non ha detto Francesco, ma Francesco c’è. Ci deve essere per forza. Forse invece non c’è. Forse non era il suo interesse. Forse bisogna avere il coraggio di lasciare questi vuoti.
La figura del decano: nelle università statali è il professore più anziano per cattedra che fa momentaneamente le veci del preside. Lei invece è stata eletta.
Già, tutti pensano che siamo decrepiti! (ride) Nelle nostre università pontificie il decano ha la funzione di preside di facoltà. La qualifica non è legata all’anzianità, ma a un’elezione del consiglio di facoltà che vota tra i professori stabili (quindi titolari di cattedra).
Che la prima decano donna in teologia di una università pontificia sia dell’Antonianum è un caso o si inscrive nella tradizione francescana?
Non saprei. Probabilmente è un caso, probabilmente invece è dovuto a vari fattori. Per esempio il fatto che l’università francescana non è una delle più grandi, il che consente di avere un corpo docente abbastanza contenuto, il numero degli stabili non è enorme come potrebbe essere forse quello della Gregoriana o della Lateranense. La seconda ragione è che qui davvero c’è tanta stima e tanta apertura nei confronti della docenza femminile. E un segno ne è la mia elezione: non sono tra gli stabili più anziani (sono diventata stabile solo lo scorso anno), eppure eccomi qui.
Ha in programma dei cambiamenti?
La nostra facoltà ha avviato già da anni un suo cammino di rinnovamento qualitativo. Il processo di Bologna ha chiesto un po’ a tutte le università un ripensamento, un miglioramento della qualità. E l’Antonianum ha risposto. Sono certa che continueremo in questa direzione. Del resto, la funzione del decano è sì quella di coordinare, ma dietro c’è il consiglio di facoltà che è un consiglio qualificato per dare gli orientamenti anche della ricerca, l’impostazione teologica. Il nostro è un lavoro di équipe.
Teologia al femminile: aveva senso, ha senso, avrà senso? Il tempo di «Colei che è», il saggio di Elizabeth Johnson che, per la prima volta, affrontava in modo radicale il problema del discorso su Dio in un linguaggio inclusivo, è passato? Oggi è meglio parlare di teologia tout court?
Non sono per questo tipo di etichette, teologia al femminile. E soprattutto non sono per le contrapposizioni, pur non ignorando che forse in passato c’è stato motivo per la contrapposizione. Forse anche nel presente, non lo so. Sicuramente lo spazio alle donne deve essere maggiormente garantito. Parlare di teologia al femminile non risponde proprio alla mia visione: c’è solo la teologia. La teologia come ricerca, come sguardo rivolto al mistero, come riflessione su questo mistero. Ma proprio perché tale va fatta con sensibilità diverse, questo sì. Il modo di accostarsi al mistero, il modo con cui una donna riflette su questo mistero che si dà, che si rivela, è sicuramente diverso da quello di un uomo. Ma non per contrapposizione. Io credo nella teologia, e credo che la teologia fatta da una donna sia propria di una donna. Diversa, ma senza la rivendicazione. Altrimenti mi sembra quasi di strumentalizzare la teologia, che invece è un campo che richiede l’onestà di chi si mette di fronte al mistero. Riflettiamo sul mistero che si dà: è il mistero che si dà, non siamo noi che lo ricerchiamo. Anche se ovviamente io mi accosto nella mia realtà. Tutto questo si vede e si sente anche nel nostro ambiente accademico. Oggi, più che la contrapposizione, serve la complementarietà e la ricchezza dei diversi approcci. In questo senso forse è necessario che lo spazio sia dato. Ma non solo da parte degli uomini. Noi donne facciamo fatica a dedicarci alla teologia per tantissimi motivi. Normalmente la donna non ha uno spazio proprio (tranne le salesiane), non abbiamo università pontificie. Ci sono molti problemi che sono all’origine di questa scarsa presenza femminile. Però sarebbe davvero importante, una fonte di arricchimento, se le suore, e anche le laiche, potessero dare il loro apporto. Perché è una ricchezza. La teologia fatta dalle donne è una teologia fatta dalle donne: non si può dire che non sia caratterizzata! Però come complementarietà e ricchezza, più che come contrapposizione o rivendicazione di spazi.
A che punto è il cammino delle donne nella Chiesa? I passi avanti sono reali o è mera apparenza?
Penso che i passi siano reali. Certamente lo sguardo non può essere commisurato sui tempi che la Chiesa ha, che sono tempi che riflettono una maturazione del pensiero avvenuta in centinaia di anni. Però secondo me lo spazio nuovo c’è ed è reale. E credo anche che sia irreversibile, nel senso che non è una concessione, ma un segno dei tempi da cui non c’è ritorno. Non è un far finta. Credo che questo dipenda molto anche da noi donne. Siamo noi che dovremmo cominciare. La donna non può misurare lo spazio che ha nella Chiesa su quello dell’uomo: abbiamo un nostro spazio che non è né minore né maggiore di quello dell’uomo. È il nostro spazio. Finché penseremo che dobbiamo ottenere quello che hanno gli uomini, non funzionerà. Certo, anche se i passi fatti sono reali, ciò non significa che sia stato fatto tutto. Si può fare ancora molto, ma il cambiamento c’è, si vede, si avverte. E penso che (a prescindere dalla mia persona) l’elezione di una donna in una università pontificia sia anche un segno di questo. La seduta che mi ha eletto era tutta maschile!
Quindi non c’è stato bisogno delle quote?
No (ride). Non delle quote, ma della collaborazione. Anche se è auspicabile che la collaborazione cresca!
(©L'Osservatore Romano 7 dicembre 2011)
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