Cosa succede se la verità non conta più nulla
di Mario Micheletti*
Nel commentare Matteo (5, 8) e chiedendosi chi sono gli uomini dal cuore puro che possono vedere Dio, il Papa sostiene che non rende giustizia alla novità del Nuovo Testamento l'esegesi liberale, che interpreta quel passo nel senso che Gesù avrebbe sostituito la concezione “rituale” della purità con quella “morale”, ponendo la morale al posto del culto.
In base all'esigenza liberale il cristianesimo sarebbe essenzialmente una morale. Al posto della purezza rituale, osserva Benedetto XVI, opponendosi al riduzionismo etico (che come è ben noto, non si esplica solo nel campo dell'esegesi ma anche in una precisa linea della moderna filosofia della religione), non è semplicemente subentrata la morale, ma «il dono dell'incontro con Dio in Gesù Cristo» (p. 73). C'è in questo contesto un riferimento esplicito alla questione circa l'“essenza del cristianesimo” (ed è chiaro il riferimento ad opere con questo titolo emblematico -- di Adolf von Harnack, soprattutto, di cui è citato a p. 185 il saggio sulla Lettera agli Ebrei, e prima ancora di Feuerbach) che ha portato, nella letteratura filosofica e teologica moderna, in modo diverso, a letture riduttivamente antropologizzanti o moralistiche della Scrittura.
Se l'essenza e la totalità del “nuovo comandamento” consistessero nella disponibilità a sacrificare la propria vita per l'altro, allora il cristianesimo, dice Benedetto XVI, sarebbe da definire «come una specie di estremo sforzo morale», secondo la stessa linea del resto in cui è interpretato e frainteso il discorso della montagna. «No la vera novità del comandamento nuovo non può consistere nell'elevatezza della prestazione morale. L'essenziale proprio anche in queste parole non è l'appello alla prestazione somma, ma il nuovo fondamento dell'essere, che ci viene donato. La novità può derivare soltanto dal dono della comunione con Cristo, del vivere in Lui» (p. 77).
Il secondo tema su cui vorrei richiamare l'attenzione, in parte legato al precedente, e forse secondario, ma significativo per me, è l'uso in alcuni momenti di categorie filosofiche. Anche qui la preoccupazione di Benedetto XVI è di proporre un confronto con alcune tradizioni filosofiche non per ridurre il messaggio evangelico a categorie del pensiero, ma, al contrario, per metterne in evidenza la novità, l'originalità, l'irriducibilità. Commentando le parole di Gesù, nel vangelo di Giovanni, circa il suo essere uscito dal Padre e il suo ritorno a lui, Benedetto XVI osserva che questo discorso potrebbe suscitare il ricordo «dell'antico schema dell'exitus e reditus, dell'uscita e del ritorno, come è stato elaborato specialmente nella filosofia di Plotino». Ma l'uscire e tornare illustrato da Giovanni, osserva il Papa, è «totalmente diverso da ciò che è pensato nello schema filosofico», perché presuppone la creazione non come declino, ma come atto positivo della volontà di Dio, ed è un processo d'amore che, proprio nella discesa, dimostra la sua vera natura, rivelando nel discendere l'amore per la creatura: ed è questo che è veramente divino; lo scopo della discesa di Gesù era di accettare e di accogliere l'umanità intera e il suo ritorno non consiste nello sbarazzarsi della sua umanità come se fosse una cosa contaminante (p. 68).
Anche sul tema, già toccato, della purezza rituale, della purificazione, s'impone, di nuovo, per Benedetto XVI, il confronto con le filosofie platoniche della tarda antichità, Plotino in particolare, in cui la purificazione si raggiunge mediante i riti ma soprattutto mediante la graduale ascesa dell'uomo verso le altezze di Dio e la liberazione dalla componente materiale, mentre nella fede cristiana «è proprio il Dio incarnato che ci purifica veramente e attira il creato nell'unità con Dio» (p. 73).
In altri momenti il confronto con la filosofia avviene in termini più costruttivi, in linea col famoso e discusso discorso di Ratisbona, in cui il Papa criticò il progetto di “de-ellenizzazione” del cristianesimo. Parlando della vita eterna, e seguendo, mi sembra, la linea patristica della praeparatio evangelica, Benedetto XVI trova stadi preparatori di questo pensiero profondamente biblico in Platone, ricordando come Platone abbia accolto nella sua opera tradizioni e riflessioni diverse sul tema dell'immortalità e sviluppando inoltre l'idea secondo cui l'uomo può diventare immortale unendo se stesso a ciò che è immortale (p. 99).
Considerando inoltre il senso in cui Giovanni usa la parola còsmos per designare il mondo umano come storicamente si è sviluppato, nel senso di corruzione, menzogna, violenza diventate in qualche modo la cosa “naturale”, Benedetto XVI non esita a ricorrere a filosofi moderni da Pascal (presente anche altrove nel libro con diversi riferimenti alle Pensées) al Marx della “alienazione” e a Heidegger, affermando audacemente, ma ovviamente senza rinunciare all'originalità della fede biblica, che in questo modo «la filosofia descrive in fondo precisamente ciò che la fede chiama “peccato originale”» e che «questa specie di “mondo” deve scomparire; deve essere trasformato nel mondo di Dio» (p. 117).
Un confronto più sottile con tematiche filosofiche è quello che emerge, sul piano della consapevolezza metodologica, con l'accenno a premesse filosofiche o culturali che limitano e vincolano l'approccio critico alla Scrittura.
Mi ha colpito infine un passo in cui Benedetto XVI, per indicare, credo, che l'avvento del regno di Dio significa anche una pienezza di grazia, un'irruzione di grazia che non contrasta con le aspirazioni umane più significative ma le realizza in modo appunto pieno e perfetto, parla indifferentemente e piuttosto audacemente di “regno di Dio” e “regno dell'umanesimo” («il regno di Dio, il regno dell'umanesimo») e osserva in questo stesso contesto che la violenza instaura uno strumento preferito dall'anticristo, per quanto possa essere motivata in chiave religioso-idealistica: «Non serve all'umanesimo, ma alla disumanità» (p. 25).
Ci sono dei passi infine in cui cautamente Benedetto XVI introduce una lettura attualizzante del Vangelo, lasciando trasparire talune sue giustificate preoccupazioni circa certi aspetti della nostra cultura e società, in un modo che potrebbe forse essere accostato a certe famose riflessioni di Romano Guardini, in particolare riguardo al concetto di “potere”.
Nel libro Guardini in realtà è ricordato due volte, la prima, a pagina 8, dove Benedetto XVI discute e critica la caratterizzazione del suo libro su Gesù, al pari del «capolavoro di Romano Guardini Der Herr», come «cristologia dall'alto», la seconda a pagina 139, in cui il Papa menziona e discute la tesi sostenuta da Guardini «nelle sue opere su Gesù», secondo cui «il messaggio di Gesù comincia chiaramente con l'offerta del regno», una tesi discussa significativamente anche in rapporto a Erik Peterson, per il quale è nota la stima del Papa e del cui articolo del 1929 sulla Chiesa qui si dice che è un articolo «che ancora oggi vale assolutamente la pena di leggere» (ricordo che nel discorso ai partecipanti al simposio internazionale su Erik Peterson del 25 ottobre 2010 Benedetto XVI mise in evidenza due capisaldi della riflessione teologica petersoniana: il carattere vincolante della Sacra Scrittura, la cui testimonianza rimane viva nella Chiesa e costituisce il fondamento per le convinzioni religiose permanentemente valide della Chiesa stessa, e il rapporto di tali convinzioni permanenti con la liturgia -- chissà se c'è anche un influsso di Peterson nella critica all'esegesi liberale?). La domanda di Pilato «Che cos'è la verità?» è vista anche come la domanda che pone la moderna dottrina dello Stato. Può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura? O deve lasciare la verità, come dimensione inaccessibile, alla soggettività e invece cercare di riuscire a stabilire la pace e la giustizia con gli strumenti disponibili nell'ambito del potere? Che cosa succede se la verità non conta nulla? Non è forse vero, si chiede il Papa, che «le grandi dittature sono vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la verità poté portare alla liberazione?» (p. 215).
La conclusione cui perviene Benedetto XVI ragionevolmente è la seguente: «Che cos'è la verità? Non soltanto Pilato ha accantonato questa domanda come irrisolvibile e, per il suo compito, impraticabile. Anche oggi nella disputa politica come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si prova fastidio per essa. Ma senza la verità l'uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti» (p. 218).
*Università di Siena
(©L'Osservatore Romano 3 dicembre 2011)
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