martedì 20 dicembre 2011

Consapevolezza di un disagio terribile. Il testo del saluto del ministro Severino al Santo Padre

Le parole del ministro Paola Severino

Consapevolezza di un disagio terribile

Pubblichiamo di seguito il testo dell'indirizzo di saluto rivolto al Pontefice dal ministro della Giustizia del Governo italiano, Paola Severino, all'inizio dell'incontro svoltosi nella chiesa della casa circondariale.

Santità,

non posso nascondere di essere profondamente commossa nel rivolgerle il mio più sentito benvenuto in questo luogo di profonda sofferenza. Insieme ai detenuti che sono qui e ai tanti altri che non ci sono, ma che sono sicuramente intorno a noi e che pensano a questo bell'incontro.
La sua visita pastorale di oggi, a pochi giorni dal santo Natale, costituisce per noi tutti motivo di rinnovata riflessione sulla situazione carceraria e sulle condizioni di vita delle persone che si trovano ristrette negli istituti penitenziari.
Da tempo ci confrontiamo con dati che testimoniano una situazione di eccezionale difficoltà e disagio e siamo ben consapevoli che tali dati sintetizzano in aride quantificazioni numeriche la terribile condizione di persone che racchiudono nel loro cuore esperienze, sofferenze, speranze.
Vorrei renderle una testimonianza diretta di ciò, leggendo il testo di una lettera che mi ha profondamente commossa e che mi è stata consegnata da un detenuto, nel corso della mia visita nel carcere di Cagliari. Credo che possa esprimere più di molte parole -- magari sapienti, magari ricercate -- i sentimenti di chi è nel carcere:
«Mettersi in contatto con persone recluse nelle carceri o internate negli ospedali psichiatrici giudiziari vuol dire mettersi in contatto con un mondo di sofferenza, solitudine, umiliazione che non deve essere ignorato, dimenticato a chi chiede ascolto, comprensione, rispetto e soprattutto spirito fraterno.
Quando si riesce a dare tutto questo senza giudicare, senza pregiudizi o falsi moralismo, ma cercando soltanto di far capire, di scoprire l'umanità di ognuno, facendo distinzione tra errore ed errante, allora il dialogo si apre e si illumina come una finestra verso la luce.
È triste e frustrante aver sbagliato, perché prima o poi si mette in discussione se stessi, si dubita delle proprie capacità di recupero e di reinserimento, e ci si convince di essere incapaci di poter cambiare vita e allora viene meno la speranza di venire accettati come persone degne di stima, macchiate per sempre e si perde la forza di vivere.
Tutto questo lo si sente nei nostri racconti di vita, dalla solitudine affettiva alla paura di perdere gli affetti lasciati fuori dalle mura, dalla disperazione repressa del sentirsi inutile senza un lavoro che ti aiuti a sentirti vivo; alla rabbia e all'impotenza davanti alle mille ingiustizie della vita carceraria.
Non c'è posto, oggi come duemila anni fa, per chi è senza voce, per chi non ha mezzi, prestigio o potere. Ed è per questo che si scatena la lotta e la pace resta un'utopia nonostante le tante parole, le marce e perfino le preghiere, se queste non si tramutano in fatti concreti così come ci ha insegnato nostro Signore Gesù Cristo.
In carcere ci sono persone dalle culture più diverse, psicologie più varie fino a quelle patologiche, persone con reati diversi -- dal piccolo ladruncolo al pluriomicida; persone di età diversa, persone dai quattordicenni agli ultraottantenni. Ma posso affermare che in tutti, salvo qualche eccezione, ho trovato e trovo tutt'oggi una certa sensibilità, spesso repressa o come impolverata, ma capace di risplendere di nuova luce usando comprensione, sincerità, coerenza, amicizia e soprattutto disponibilità di accoglienza nella società.
Ogni anno, in certi eventi -- come la Natività di Nostro Signore o per la santa Pasqua -- ci sentiamo naturalmente tutti più buoni; ma penso che al punto al quale siamo arrivati, non si tratti soltanto di fare qualche opera buona, ma di operare giustizia facendo posto nella società, così sfacciatamente opulenta, a coloro che vivono ai margini, perché anche noi siamo parte integrante di questa società».
Si conclude, questa lettera, con questa frase: «Se aiuteremo la barca di nostro fratello ad attraversare il fiume, anche la nostra barca avrà raggiunto la riva. Buon Natale».
Santità, credo che aggiungere parole a questa lettera vorrebbe dire soltanto spendere tempo inutile. Questa lettera me la sono trovata in tasca mentre preparavo il discorso per venire qui, al carcere di Rebibbia. E l'ho trovata come un segno, qualcosa che dovevo leggere e dovevo comunicare oggi. Non c'è nulla da aggiungere a questo se non che questo dimostra come la custodia cautelare in carcere debba essere disciplinata in modo tale da rappresentare una misura veramente eccezionale e transitoria, e che debba portare poi al reinserimento. E che una sanzione effettiva, dopo la condanna, debba coniugare entrambi i valori posti a fondamento di essa dalla Costituzione: la riparazione, sì; ma anche la rieducazione ed il reinserimento sociale.
È con questi sinceri e profondi sentimenti, sicura di farmi interprete del comune sentire di tutti i presenti, che le formulo un caloroso ringraziamento e un vivo augurio per la prosecuzione della sua opera pastorale.

Grazie, Santità, di essere qui questa mattina.

(©L'Osservatore Romano 19-20 dicembre 2011)

1 commento:

laura ha detto...

molto bello questo saluto, in sointonia con lospirito della vista e per nulla formale