A colloquio con l’arcivescovo neozelandese Dew in visita «ad limina Apostolorum»
Un avamposto cattolico in Oceania
Nicola Gori
Una minoranza, quasi un avamposto nel mezzo del continente più lontano geograficamente dal primo luogo dell’annuncio evangelico. Sono i cattolici che vivono in Nuova Zelanda: i discendenti degli europei che si trasferirono in Oceania; i convertiti tra le popolazioni indigene; e i più recenti immigrati, soprattutto quelli provenienti da Paesi asiatici. Un miscuglio di razze e lingue che arricchisce la comunità cristiana locale. Ne abbiamo parlato con monsignor John Atcherley Dew, arcivescovo di Wellington, in questi giorni a Roma per la visita ad limina dell’episcopato neozelandese.
In questo tempo di crisi finanziaria siamo chiamati a riflettere sul modello attuale di economia. Crede sia conforme ai bisogni dell’uomo?
Le manifestazioni di piazza in diverse parti del mondo sono servite alla gente per esprimere un punto di vista critico sull’attuale recessione. Anche in Nuova Zelanda ci sono persone che a Wellington e ad Auckland hanno protestato. La nostra Conferenza episcopale è consapevole che nella società ci sono persone povere, che faticano a far quadrare i conti, a provvedere alle famiglie e a educare i figli.
Crede che la Chiesa possa suggerire come umanizzare il mondo della finanza per renderlo più equo e solidale?
È quanto cerchiamo di fare attraverso la Conferenza episcopale. La nostra Caritas è molto brava nei programmi di educazione, per consentire alla gente di vivere in una società giusta ed equa. Ogni anno celebriamo la settimana della giustizia sociale, e nel nostro programma per la Quaresima, la Caritas offre informazioni che aiutano a far fronte agli squilibri tra ricchi e poveri. La giustizia sociale è una cosa che i vescovi cercano di promuovere prioritariamente e tutte le diocesi stanno ponendo l’accento sul bene comune.
È noto l’impegno dell’episcopato neozelandese a favore della vita nascente. Come lo state promuovendo?
Nella mia diocesi c’è un ufficio pro vita, con il compito specifico di fornire alle parrocchie il materiale non soltanto per la domenica per il rispetto della vita, ma anche durante tutto l’anno, al fine di incoraggiare le persone a rispettare la vita dal concepimento alla morte naturale. E nella maggior parte delle diocesi c’è sempre qualcuno che si occupa di questo ambito. Sono stati tenuti dei seminari sull’enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II, incoraggiando le persone a rispettare, promuovere e difendere la dignità della vita umana. La nostra Conferenza episcopale ha un organismo che si occupa di bioetica, che ha svolto un buon lavoro riguardo alla questione dell’eutanasia. All’inizio dell’anno il centro di bioetica, insieme a Hospice New Zealand, ha organizzato un incontro per aiutare le persone a comprendere che la sofferenza fa parte della vita, che a chi soffre possono essere offerte cure palliative, e che spesso è proprio nelle ultime fasi dell’esistenza e in mezzo alle sofferenze che le persone scoprono il senso e il fine della vita. Di recente i vescovi hanno pubblicato una dichiarazione sull’eutanasia e sulla necessità che tutti rispettino la vita. Attualmente in Nuova Zelanda il fenomeno è in crescita, per iniziativa di un gruppo di pressione che ritiene lecita l’eutanasia. Quindi si sta lavorando sia per fermare gli aborti sia per difendere la vita fino alla sua fine naturale.
Il prossimo Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione è una sfida anche per i cattolici della Nuova Zelanda. Come proclamate il Vangelo nella vostra società?
Riteniamo che il tema sinodale sia molto opportuno. Viviamo in un Paese profondamente secolarizzato e spesso le persone non vogliono ascoltare il messaggio del Vangelo, perché ritengono di poter vivere in modo indipendente e decidere da sole cosa fare. L’invito a una nuova evangelizzazione giunge quindi molto opportuno in una società profondamente influenzata da pubblicità, consumismo, secolarismo e relativismo, che d’altronde riscontriamo in tutto il mondo. L’invito a una nuova evangelizzazione va accolto incominciando dalla nostra gente. Di recente, per esempio, nel corso del consiglio presbiterale diocesano, abbiamo parlato delle opportunità che i sacerdoti hanno in occasione di battesimi, matrimoni e funerali di predicare il Vangelo e di incoraggiare le persone a viverlo. Attualmente, stiamo attenti alle occasioni che si presenteranno in vista del Sinodo e dell’Anno della fede, che consideriamo straordinarie opportunità per proclamare il Vangelo in modo nuovo e diverso. Per quanto riguarda noi, come Paese piccolo — la Nuova Zelanda ha solo 4,4 milioni di abitanti, dei quali solo il 15 per cento cattolici, e appena sei diocesi — riteniamo che sia attraverso realtà come il centro di bioetica e le scuole cattoliche che possiamo proporre il Vangelo alla gente come modo di vita gioioso e significativo.
Qual è il ruolo dei laici nella vita della Chiesa locale?
Negli ultimi anni il loro coinvolgimento è molto aumentato. Tutte le diocesi hanno registrato una diminuzione dei sacerdoti e al contempo il laicato ha compreso che attraverso il battesimo si è chiamati a partecipare alla vita della Chiesa. Soprattutto i movimenti e le associazioni hanno un certo impatto in tutto il Paese: sanno di avere tutto il diritto di partecipare e lo fanno in tanti modi diversi. Un’altra forma di coinvolgimento dei laici è come insegnanti nelle scuole, ma anche nei consigli pastorali parrocchiali e diocesani. Abbiamo istituito una formazione superiore cattolica, che ora è diventata nazionale e appartiene ai vescovi delle sei diocesi. Questo significa che possiamo offrire un’educazione cattolica superiore in tutto il Paese.
Come è organizzata la cura pastorale per i maori?
L’assistenza pastorale ai maori varia a seconda delle diocesi: ciascuna ha un proprio programma; ma in generale alcune parti della liturgia, specialmente i riti introduttivi e conclusivi durante la messa, vengono pronunciati nella lingua dei nativi. Il nostro nuovo messale comprende il maori, e i vescovi l’hanno voluto per dimostrare che facciamo sul serio quando parliamo di relazione «biculturale» tra la popolazione di origine europea e quella indigena. Abbiamo un consiglio nazionale maori, con rappresentanti di ogni diocesi, che ha presentato ai vescovi un piano pastorale. Quindi è un compito che prendiamo molto sul serio e penso che ogni anno si facciano progressi.
E la pastorale per gli immigrati?
Rappresenta una sfida per noi. Ci sono molti immigrati venuti in Nuova Zelanda negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Sono arrivati dall’Europa, dall’Olanda e da molti altri Paesi. Proprio negli ultimi anni sono giunti numerosi asiatici, e quindi l’assistenza pastorale per la gente proveniente da Filippine, Corea, India o Sri Lanka ha costituito una sfida per tutte le diocesi. Nella maggior parte di esse c’è qualche sacerdote filippino. In alcune abbiamo comunità coreane con sacerdoti connazionali. Tuttavia, il nostro impegno è quello di integrarli nella vita delle parrocchie, offrendo allo stesso tempo una pastorale nelle loro lingue. Riteniamo che sia una buona opportunità il poter contribuire con la loro lingua e le loro usanze e inculturarsi nella vita della Chiesa. Quindi, oltre a essere una sfida è anche una benedizione e i numerosi immigrati che continuano a giungere in Nuova Zelanda sono per noi un arricchimento.
(©L'Osservatore Romano 18 dicembre 2011)
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