lunedì 19 dicembre 2011

Il Papa a Rebibbia: l'emozione e le storie dei detenuti (Galeazzi)

Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:

CARCERI LA VISITA DI BENEDETTO XVI

Il Papa a Rebibbia “Il sovraffollamento è una doppia pena”

Il Pontefice visita i carcerati che chiedono un’amnistia: “Ma ora ci sentiamo meno soli”

GIACOMO GALEAZZI

CITTA' DEL VATICANO

Sulle orme di Roncalli e Wojtyla, Benedetto XVI «conquista» Rebibbia. «Il sovraffollamento del carcere è una doppia pena», denuncia. In un istituto «oltre limite» (1.740 detenuti in celle che possono ospitarne 500) Benedetto XVI avverte che «dove c’è un carcerato lì c’è Cristo che attende la nostra visita». Esorta a non badare a chi parla male dei detenuti («lo fanno anche con il Papa»). Se alcuni sono maldicenti, tanti mostrano amore: anche nei Sacri Palazzi si spediscono lettere e pacchi regalo ai carcerati. Grande emozione tra detenuti, personale e autorità. Accolto dal ministro della Giustizia, Paola Severino, Benedetto XVI entra nella chiesa «Padre Nostro», pronuncia un discorso accorato, risponde a braccio alle domande. Un breve giro tra sale e celle con una sosta-colazione a base di torta sacher e strudel, la benedizione dell’albero piantato per ricordare la visita e l’incoraggiamento finale: «La luce del Natale sia con voi, perché anche se cadiamo possiamo rialzarci». I carcerati mentre il corteo si allontanava da Rebibbia gridano: «Amnistia, amnistia». Molti hanno le lacrime agli occhi:«Ora non siamo più soli».Dove c’è un carcerato lì c’è Cristo che attende la nostra visita. Parlano male di voi? Lo fanno anche di me

I DETENUTI

Il «teologo»

“Ho pregato per avere la forza di parlare”

Gli operatori dell’istituto lo chiamano «il teologo». Fisico e mani da boxeur, capelli brizzolati cortissimi e occhiali che rivelano la sua passione per la lettura, Gianni ha abbracciato Benedetto XVI. Pochi secondi per dirgli con un filo di voce «questo è da parte di tutti i detenuti d’Italia». Nel portare il messaggio, Gianni ha sorpreso il Papa con il suo intervento sul significato della confessione e dell’assoluzione. «La risposta del Pontefice mi ha convinto, il peccato non ha solo effetti “verticali”, non riguarda solo il peccatore e Dio, ma ha effetti orizzontali su tutta la comunità», commenta Gianni dimostrando di meritare il soprannome. «Sono un uomo di fede, cresciuto dai preti, la chiesa del mio quartiere era la mia seconda casa - spiega Gianni -. Prego molto e chiedo a Gesù di prendersi cura di noi. Ho pregato anche per oggi, perché il Signore mi desse la forza di parlare al Papa. Sembro forte, coraggioso, ma le notti scorse non ho dormito per l’emozione». Contro il sovraffollamento si affida al ministro Severino: «Ci ha incoraggiato, troverà la soluzione».

L’ammalato

“Siamo dimenticati ci sentiamo sub-umani”

Non badate a chi parla male di voi, lo fanno anche con me». La sua domanda, ha strappato al Papa una «confessione» agrodolce. Federico parla «a nome dei persone detenute nel reparto infermeria». Rappresenta «uomini detenuti, malati e sieropositivi»: «Troppo poco si parla di noi, spesso in modo così feroce come a volerci eliminare dalla società, questo ci fa sentire sub-umani». Benedetto XVI risponde paterno: «Dobbiamo sopportare che alcuni parlino in modo feroce. Parlano in modo feroce anche contro il Papa e tuttavia andiamo avanti». Il confronto prosegue. «Se lo chiedessi in ginocchio, da solo, dentro una stanza, rivolgendomi al Signore, mi assolverebbe?». Il Papa non esita: «Se lei si inginocchia e con vero amore di Dio prega che Dio perdoni, sarà perdonato». Con Federico il papa teologo si sofferma sulla differenza tra giustizia umana e giustizia divina. Federico lo interroga per i suoi compagni del braccio G14: «Cosa possono chiedere degli uomini detenuti, malati e sieropositivi al Papa?». Ratzinger ascolta, dialoga.

Il politico

Cuffaro, dai riflettori all’ombra degli umili

È il detenuto più celebre di Rebibbia e anche uno dei più devoti. Un anno fa ha atteso in preghiera anche il verdetto che gli ha dischiuso le sbarre del carcere romano. Ma Totò Cuffaro ieri è rimasto un po’ in disparte. L’ex governatore della Sicilia frequenta assiduamente la chiesa interna intitolata a «Padre nostro» e beneficia, a ogni festa comandata, della cura pastorale del cappellano «veterano» don Sandro Spirano, carismatica guida spirituale di casa in ogni settore di Rebibbia, tanto da celebrare messa persino nelle celle del 41bis. Ieri al Nuovo Complesso Cuffaro ha pregato e ascoltato Benedetto XVI, senza però distinguere in nulla la sua partecipazione rispetto agli altri carcerati. Il cattolicissimo ex presidente della regione Sicilia, camicia e maglione, aria mite e dimessa, ha seguito la cerimonia accanto ai compagni di cella e agli agenti della casa circondariale. E non ha chiesto di essere tra i detenuti che hanno rivolto pubblicamente domande a papa Ratzinger.

Il contrabbandiere

“In cella per mio figlio Ma lo farei ancora”

Salvatore, detenuto napoletano di 45 anni che da 21 anni era latitante in Germania, aveva scelto di tornare in Italia per veder nascere il suo settimo figlio, consapevole che questo avrebbe significato un futuro in cella. Racconta orgoglioso la sua storia all’aria aperta, osservando il cipresso benedetto dal Papa. Pochi istanti di una nuova vita che per un padre significano anche «rassegnarsi ai 6 anni di galera» da scontare. Perché «nonostante tutto ne è valsa la pena». A 24 anni Salvatore contrabbandava sigarette, poi la denuncia e lo spettro della galera. Aveva scelto la latitanza, lontano dalla famiglia, in Germania. Pur di non finire in cella. A Rebibbia sta scontando un reato commesso 21 anni fa. Era tornato indietro: gli errori non si possono cancellare con la fuga. I reati restano. E il passato gli ha presentato un conto non ancora saldato. In questo posto «dove in alcune celle si sta anche in 11», di sigarette ne fuma tante e ripercorre la sua storia con l’amarezza di chi si è «fatto beccare», ma con l’orgoglio di un «padre vero».

Il rapinatore

“Ho scritto al ministro le nostre speranze”

Non è un detenuto comune ma è sotto custodia con «alta sicurezza». Ha scritto e consegnato al ministro della Giustizia, Paola Severino la lettera che il Guardasigilli ha letto ieri a Rebibbia davanti al Papa: il testo-simbolo della giornata, segno di una «rinascita». Alfio Diolosa è detenuto nel braccio di «alta sicurezza» del carcere cagliaritano di Buoncammino. Con la lettera ha regalato alla Severino un presepe in miniatura fatto con le sue mani nei laboratori dell’istituto di pena. Aldo, 52 anni, è originario di Catania ed è stato trasferito in Sardegna dalla Sicilia. Ha appreso l’arte di «mastro presepaio» da un detenuto che fino a pochi anni fa realizzava le statuine per la natività allestita nel carcere sardo. E’ dietro le sbarre per scontare un cumulo di pena, circa trent’anni, per vari reati, dalla rapina all’estorsione, all’associazione di stampo mafioso. Una quindicina li ha già scontati, ne resta una decina. La settimana scorsa ha incontrato per alcuni minuti il ministro durante la sua visita all’istituto di Cagliari.

© Copyright La Stampa, 19 dicembre 2011

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