martedì 20 dicembre 2011

Il Papa agli universitari: Non un dio generico ma Dio vivo e vero (Francesco Ventorino)

Il Papa agli universitari

Non un dio generico ma Dio vivo e vero

Francesco Ventorino

Li ha sfidati, il Papa, quegli universitari romani che stavano ad ascoltarlo nella basilica Vaticana il 15 dicembre.
Parlando dell’attesa di Dio, propria dell’Avvento, ha domandato: «L’invito all’attesa di Dio è proprio fuori tempo?». E ancora: «Cosa significa per me il Natale; è davvero importante per la mia esistenza, per la costruzione della società?».
Interrogativi non retorici. Ma Benedetto XVI ha fatto notare subito che ogni tentativo di costruire il mondo senza o contro Dio, e al seguito di ideologie pretenziose, ha finito per ritorcersi contro l’uomo stesso e la sua dignità profonda, fino a fargli perdere la speranza in una edificazione positiva entro la storia, nonché la stima e l’amore verso se stesso.
Ha scritto Giacomo Leopardi nello Zibaldone: «L’uomo che non si interessa a se stesso, non è capace di interessarsi a nulla, perché nulla può interessare l’uomo se non in relazione a se stesso. L’uomo che non desidera per se stesso e non ama se stesso non è buono agli altri».
All’uomo d’oggi manca questo amore. Egli infatti ha smarrito la ragione per cui amare se stesso. Ed è disperatamente attaccato a ciò che fa e a ciò che possiede: da questo cerca di trarre il proprio valore, il valore della propria vita, perché non si ama e non si stima per ciò che egli è. «L’attaccarsi a quel che si fa come luogo di consistenza — diceva don Luigi Giussani nel 1984 agli universitari — è l’espressione della mancanza di consistenza di sé come affezione. L’impeto affettivo non logora mai la persona, ma aumenta nella sua espressività man mano che avanza. Ciò che logora è l’impeto di possesso».
Ma quando l’uomo impara ad amarsi? Solo quando è oggetto di un grande amore. «Nell’esperienza di un grande amore — ha scritto Romano Guardini — tutto il mondo si raccoglie nel rapporto Io-Tu, e tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito. L’elemento personale a cui in ultima analisi intende l’amore e che rappresenta ciò che di più alto c’è fra le realtà che il mondo abbraccia, penetra e determina ogni altra forma: spazio e paesaggio, pietre, alberi, animali». Come suggeriscono queste parole dell’Essenza del cristianesimo, l’uomo coglie il valore di se stesso e di tutto il mondo quando fa l’esperienza di essere amato.
Per questo il delitto più grande contro l’umanità è la sistematica negazione di Dio come mistero di carità, da cui sgorga tutto ciò che è, da cui in particolare fluisce quell’essere singolare che è l’uomo libero, creato e amato per se stesso, in vista soltanto della sua stessa realizzazione, della sua felicità, e non in funzione di altro. Consumata questa negazione, l’uomo ha iniziato da capo, come nell’oscurità dei tempi antichi, a concepirsi come figlio del niente, del caso o della necessità naturale, finendo per perdere la stima verso se stesso e con essa la capacità di voler bene all’altro.
Il fatto che oggi si rifiuti persino il legame coniugale nasce da una doppia disistima: «Può un altro amare me per tutta la vita? E merita forse l’altro un amore fedele?». A buon diritto san Paolo aveva affermato: «Chi ama la propria moglie ama se stesso» (Efesini, 5, 28). Il matrimonio, soprattutto quello cristiano, risulta così una sorta di rivincita sull’apparente inutilità della vita e sulla ostentata affermazione della nullità dell’uomo.
L’essere è carità. Se ne fai l’esperienza almeno per un istante, non puoi più trascurare questo punto di vista. Purché ci sia chi te lo rammenti con la sua compagnia. E in definitiva, questo è lo scopo di ogni autentica compagnia umana: l’esaltazione dell’uomo, la promozione del suo desiderio di amare e di generare. Credo che si siano sentiti compresi quegli universitari a cui il Papa ha detto: «Non abbiamo bisogno di un dio generico, indefinito, ma del Dio vivo e vero, che apra l’orizzonte del futuro dell’uomo a una prospettiva di ferma e sicura speranza, una speranza ricca di eternità e che permetta di affrontare con coraggio il presente in tutti i suoi aspetti»!
Non basta più, dunque, un vago senso religioso o una qualunque nozione che noi possiamo farci di Dio. Ciò che occorre è l’annunzio del Dio cristiano, un Dio che si fa bambino per l’uomo: «Nella grotta di Betlemme la solitudine dell’uomo è vinta, la nostra esistenza non è più abbandonata alle forze impersonali dei processi naturali e storici, la nostra casa può essere costruita sulla roccia: noi possiamo progettare la nostra storia, la storia dell’umanità non nell’utopia ma nella certezza che il Dio di Gesù Cristo è presente e ci accompagna». Solo l’esperienza di una novità, dell’incontro con questo Dio, può ridare all’uomo il senso vero di se stesso e della storia, e la speranza in un compimento.

(©L'Osservatore Romano 21 dicembre 2011)

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