Musica e canto liturgico alla scuola di sant’Ambrogio
Anche la cetra dell’anima ha bisogno del suo plettro
Inos Biffi
Pur senza aver elaborato una teoria del canto, sant’Ambrogio (di cui la Chiesa celebra la memoria il 7 dicembre) ne è vivamente attratto e intesse un appassionato e ripetuto elogio delle proprietà della musica. In particolare egli si compiace di ascoltare e di contemplare la sua Chiesa che canta, e, con singolare originalità e perfetta riuscita, istituisce nella Chiesa occidentale quella poesia e quegli inni sacri che ancora cantiamo.
È stato definito un’«anima eminentemente musicale» (Ambrogio Amelli) — «il più musicale fra tutti i Padri della Chiesa» (Ernesto Teodoro Moneta Caglio). D’altra parte, come scrive Angelo Paredi, era «cresciuto in un ambiente aristocratico, in cui la musica era parte integrante della educazione giovanile» e se, da pastore, sarebbe stato un educatore convinto della sua Chiesa al canto sacro, prima ancora egli aveva un’innata inclinazione musicale e poetica. La lettura delle sue opere rivela la precisa conoscenza che Ambrogio aveva della musica e del canto — è il Padre che cita più di una volta le sette note della scala musicale — e la sensibilità finissima che lo portava a gustarli e a farli gustare. La «soavità della voce canora» (Commento a dodici salmi, i, 2) appartiene, secondo il vescovo di Milano, al mondo celeste — agli angeli e ai santi — così come dall’asse stesso del cielo è diffusa la «soavità di un perpetuo concento» (ibidem): una soavità che egli soprattutto avverte e rileva tanto nella natura inanimata e animata — assunte rispettivamente a fare da esemplare e stimolante metafora all’uomo — quanto nella natura umana.
Lo incantano il «dolce suono» e il «giocondo fragore» del mare, il «concerto delle onde», che il vescovo interpreta come un simbolo, in gara con la comunità che canta i salmi: «concento delle onde» e «concento del popolo». Scrive: «il canto degli uomini, delle donne, delle vergini, dei fanciulli, a guisa di risonante fragore d’onda, fa eco nei responsori dei salmi».
Spesso sant’Ambrogio richiama gli uccelli, che, «quando vanno a dormire, lieti, per così dire, di aver compiuto il loro dovere, sono soliti rallegrare il cielo con i loro canti. E questo sono soliti rinnovare, come per una consuetudine, al sorgere e al tramontar del sole, per lodare il loro Creatore per la notte come per il giorno, quando sono trascorsi o stanno per incominciare» (I sei giorni della creazione; sermone VIII, 12, 36).
Ma si direbbe, soprattutto, che Ambrogio resti attratto dai canti che dalla natura si elevano durante la notte — «anche la notte ha le sue melodie con le quali suole allietare le veglie degli uomini» (ibidem, 24, 85) — e in particolare a impressionarlo è il «canto gradevole del gallo», il gallinaceo che — nella felice associazione con i richiami e le vicissitudini bibliche (il gallo di Pietro) — diventerà un «gallo mistico» e gli ispirerà uno dei suoi inni più belli, l’Æterne rerum conditor, già ritrovabile con la sua ispirazione e col suo vocabolario nella prosa dell’Esamerone: «Anche il canto del gallo è gradevole nella notte, non solo gradevole ma per di più utile, perché come un buon coinquilino sveglia chi ancora sonnecchia, avvisa chi è già desto, conforta chi è in viaggio, indicando con il suo squillante segnale che la notte sta per terminare. Al suo canto il brigante abbandona l’agguato e la stessa stella del mattino, ridestandosi, si leva a illuminare il cielo; al suo canto il navigante ansioso depone la sua angoscia e ogni tempestosa procella, suscitata spesso dai venti della sera, si placa; al suo canto l’animo devoto di slancio si dà alla preghiera e riprende la lettura interrotta; al suo canto infine la stessa Pietra della Chiesa lava la colpa con la sua negazione prima che il gallo cantasse. Al suo canto ritorna in tutti la speranza, si allevia la pena dell’infermo, si attenua il dolore della ferita, si mitiga l’arsura della febbre, in chi è caduto ritorna la fiducia, Gesù fissa con lo sguardo chi vacilla, richiama chi è nell’errore. Così rivolse a Pietro il suo sguardo e subito la colpa scomparve, fu cacciata la negazione, seguì la confessione del peccato (...) Dopo il canto del gallo [Pietro] diventa più saldo e ormai degno di essere guardato da Cristo» (ibidem, 24, 88).
Sono esattamente i temi che Ambrogio farà cantare ai suoi fedeli nei loro mattutini. Sensibile alla dolcezza della musica e del canto, Ambrogio, senza i problemi e le inquietudini di Agostino, disporrà serenamente il canto in senso teologico, ossia come forma eminente e suggestiva di preghiera, sulla convinzione che «Dio si compiace di venir lodato col canto; ma anche di essere dal canto riconciliato». Perciò, continua: «Mosè si servì del canto poetico soprattutto allorquando rendeva testimonianza del cielo e della terra, per due motivi: perché, al suono della bellezza celeste, il mondo con maggior interesse ascoltasse il canto della propria salvezza e perché, grazie alla soavità di quel sacro piacere, si radicasse per sempre nell’animo dell’uomo l’osservanza della legge» (Commento a dodici salmi, i, 5).
Sant’Ambrogio ne parla espressamente, e senza dubbio egli pensa ai salmi che, grazie al loro canto corale, si incidono nel ricordo dei fedeli che li possono così agevolmente cantare: «Ciò che ci è bene impresso, noi usiamo cantarlo, e nel canto esso si imprime ancora meglio nel nostro pensiero» (Commento al salmo 118, 7, 25). Per cui — egli dice — «anche quando non abbiamo il volume tra le mani, come quegli animali (...) che, anche quando non pascolano, continuano a ruminare, traendo fuori dal proprio interno gli alimenti che vi avevano immagazzinato, così anche noi dobbiamo estrarre il fieno spirituale dallo scrigno della nostra memoria, dalle nostre viscere, per ruminarlo» (ibidem).
Il santo ha una dottrina sul «suono della voce umana» (Lettere, 29, 16), sul suo valore rappacificante, sulla sua efficacia a domare le passioni (Commento al salmo 118, 7, 29), ma particolarmente sulla sua funzione — potremmo dire — teologica ed ecclesiale, per la quale viene superata la tentazione di lasciarsi attrarre dal «suono della voce, che talora diletta l’animo con canti ingannevoli», e che certo rappresenta non un «bene perfetto», ma un bene corruttibile (Abramo, ii, 1, 3).
Il vescovo sa quanto i suoi fedeli sentano — come i compagni di Ulisse (Giacobbe e la vita beata, ii, 56) — la sirena o l’attrattiva per i canti profani con gli spettacoli che essi animano. A essi egli oppone la musica per il culto, quella che anima la liturgia: i fratelli devono trovarsi insieme, così che «traggano diletto non dalle musiche funeste degli spettacoli teatrali, che infrolliscono l’animo inducendolo alla sensualità, ma dai canti della Chiesa, dalla voce del popolo che in coro loda Dio» ed è «strumento per l’armonia dell’opera divina, nel quale riecheggia la musica della rivelazione e opera intimamente lo Spirito di Dio» (I sei giorni della creazione, iv, 1, 5). «Dolce — ripete Ambrogio — è quella melodia che non infiacchisce il corpo, bensì rafforza intelletto e animo» (Commento al salmo 118, 7, 26) o quell’«armonia del popolo che canta in coro e fa echeggiare la serena dolcezza della sua gioia perché un peccatore si è salvato» (Esposizione del vangelo secondo Luca, VII, 237 (Ambrogio sta parlando dei canti nella casa dove il figlio prodigo è ritornato). D’altronde, appare anche nel vescovo di Milano «una certa incompatibilità fra il canto liturgico e l’impiego degli strumenti» (Ernesto Teodoro Moneta Caglio): «Le persone pie recitano inni, e tu tieni in mano la cetra? Si cantano salmi, e tu prendi l’arpa e il tamburello?» (Elia e il digiuno, 15, 55).
In ogni modo, il canto della Chiesa prosegue la storia sacra del canto, quella che Ambrogio si compiace di rievocare. Egli paragona le sette note con la «settemplice grazia dello Spirito Santo» (De Iacob et vita beata, ii, 9, 39); e parla ora dell’invitante e «soave dolcezza» dei carmi profetici (Commento al salmo 118, 7, 26), ora della «melodia d’una bellezza soave», prodotta da Paolo, che «ha fatto vibrare tutte le corde bene intonate, percotendo col plettro dello Spirito Santo la corda interiore ed esteriore» (Commento a dodici salmi, 48, 7), ora del «salterio dalle sette corde» (De Iacob et vita beata, ii, 56), e anche: del «coro sacratissimo a Dio, canoro per le voci» dei martiri (ibidem, 53); dell’«immortale melodia» di Davide (ibidem); del «risonante annunzio degli apostoli» (Lettere, 36, 2). Ma, soprattutto, «salterio (...) è l’uomo perfetto in Cristo, nel quale, come le corde ben modulate della cetra, le opere delle armoniose virtù cantano una musica» (Commento a dodici salmi, 40, 40), comparate a un «concento» (Commento al salmo 118, 40). Quanto alla nostra anima possiede una cetra, «che risuona sotto il plettro dello Spirito Santo». La nostra stessa carne «è una cetra, quando muore al peccato per vivere per Dio; è una cetra, quando nel sacramento del battesimo riceve lo Spirito settiforme» (Le rimostranze di Giobbe e di Davide, 10, 36).
Ambrogio trapassa, così, il senso esteriore e il canto della voce, per raggiungere ed esaltare il canto della vita e della grazia, aprendo così all’intenzione ultima — «teologica» — lo stesso canto della Chiesa.
(©L'Osservatore Romano 7 dicembre 2011)
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