Da san Francesco d'Assisi a Benedetto XVI
L'urgenza di una ecologia umana
di Jean-Louis Bruguès
Negli ultimi anni sul tetto del principale auditorium del Vaticano sono stati istallati dei pannelli fotovoltaici per produrre elettricità con il sole romano. Le sale da pranzo usufruiscono ormai di un sistema di raffreddamento solare (solar cooling). Per compensare le sue emissioni di diossido di carbonio, il Vaticano ha iniziato a piantare una «foresta climatica» di diverse centinaia di ettari nel parco nazionale di Bükk, (Ungheria). È così diventato il primo Stato climaticamente neutrale. Certo, si tratta del più piccolo Stato del mondo; ma è vero che non si può dare consigli agli altri, in materia di ecologia, se non si comincia con l'applicarli a se stessi. In questo campo la testimonianza vale più dei discorsi.
Eppure servono anche le parole e i testi.
«L'entità di tali catastrofi ci interpella», ha detto Benedetto XVI il 9 giugno del 2011 incontrando alcuni nuovi ambasciatori.
«È l'uomo che viene per primo, ed è bene ricordarlo. L'uomo, al quale Dio ha affidato la buona gestione della natura, non può essere dominato dalla tecnica e divenirne il soggetto. Una tale presa di coscienza deve portare gli Stati a riflettere insieme sul futuro a breve termine del pianeta, di fronte alle loro responsabilità verso la nostra vita e le tecnologie. L'ecologia umana è una necessità imperativa.
Adottare in ogni circostanza un modo di vivere rispettoso dell'ambiente e sostenere la ricerca e lo sfruttamento di energie adeguate che salvaguardino il patrimonio del creato e non comportino pericolo per l'uomo devono essere priorità politiche ed economiche. In questo senso, appare necessario rivedere totalmente il nostro approccio alla natura. Essa non è soltanto uno spazio sfruttabile o ludico. È il luogo in cui nasce l'uomo, la sua “casa”».
Dietro l'immagine accettata di grandissimo intellettuale, mi sembra di poter distinguere un'altra figura interessante: alcuni hanno chiamato Benedetto XVI «il Papa verde». È davvero così? È da lungo tempo che i Pontefici parlano di ecologia: encicliche, messaggi e discorsi affrontano con insistenza il problema della responsabilità umana verso la natura e il clima. Ma tutto avviene come se uno schermo rendesse le loro parole non udibili. Perché? Esistono cause strutturali per questa mancanza. I parametri cattolici -- la lunga durata, la pazienza, la maturazione, il radicamento -- sono diversi da quelli delle società occidentali che apprezzano l'istantaneità, l'effimero, l'ansia di progredire a qualsiasi costo.
C'è una seconda difficoltà, più temibile.
Essa assume la forma di un'argomentazione spesso ripetuta e presentata come un rimprovero: il cristianesimo avrebbe fornito la matrice ideologica di una certa modernità che, considerando la natura come una miniera eticamente muta e dalle risorse inesauribili, ha concepito il progresso come uno sviluppo e una crescita quasi infiniti. L'argomentazione contiene una parte di verità. C'è stata di fatto una corrente che ha indubbiamente svolto questo ruolo, presentata come la versione moderna del cristianesimo. L'uomo sarebbe al centro dell'universo che deve sottomettere con il genio della sua scienza e della sua tecnica. Questa visione si fonda sulla filosofia e sulla concezione meccanicistica di Cartesio, a partire dal XVII secolo, e si sviluppa nella teologia cosiddetta liberale. Quest'ultima, spesso di origine protestante, presenta il cristianesimo come una religione radicalmente diversa dalle altre.
Le religioni pagane tradizionali proponevano un rapporto stretto e armonioso fra l'uomo e la natura, spesso abitata da forme superiori. Offrivano un ideale di vita sotto forma di saggezze ancestrali. Secondo la corrente qui descritta succintamente, il cristianesimo è essenzialmente una religione storica, poiché Dio è intervenuto nella storia degli uomini. È dunque alla storia e non alla natura che bisogna guardare per trovare il senso dell'esistenza umana, al futuro e non agli avi, alla profezia e non alla saggezza.
Questa corrente ha svolto un ruolo predominante fin dalla fine del XIX secolo e per due terzi dello scorso secolo. È però soggetta al seguente rimprovero: questo cristianesimo non si è preoccupato della natura né degli elementi a essa legati.
Occorre ricordare che il cristianesimo è molteplice? Altre tradizioni anch'esse cristiane hanno posto l'accento sulla natura percepita come benevola, fonte d'insegnamento, affidata alla rispettosa gestione dell'uomo. «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi?» (Salmi, 8, 4). Di fatto, fin dalle origini del cristianesimo, ci sono stati autori, e non dei meno importanti, che hanno caldeggiato un rapporto armonioso con il creato. Origene credeva che esistesse una somiglianza di tutte le creature, certo diverse da quella umana, con il Creatore. Nel iv secolo Basilio di Cesarea affermava che «il mondo è la scuola delle anime razionali e il luogo in cui ci si educa alla conoscenza di Dio, in quanto Egli offre allo spirito, mediante le cose visibili e sensibili, una guida alla conoscenza penetrante delle realtà invisibili» (Omelie sull'Esamerone, i, 6).
Noi siamo forse più sensibili alla figura poetica di san Francesco d'Assisi che predicava a tutte le creature «con una grande gioia interiore ed esteriore come se fossero state dotate di sentimento, d'intelligenza e di parola» (testimonianza di frate Leone). Questa vena poetica continuerà fino ai giorni nostri, particolarmente forte in poeti come Péguy.
Tra queste due visioni cristiane Benedetto XVI opera una scelta molto chiara. «Se vogliamo capire nuovamente il cristianesimo -- scriveva già il cardinale Ratzinger -- e viverlo in tutto il suo spessore, dobbiamo perentoriamente ritrovare la dimensione cosmica della rivelazione» (Introduzione allo spirito della Liturgia). Rompe così con la prima corrente che tuttavia in Germania aveva esercitato un'influenza più determinate che altrove e si schiera dalla parte di quella che chiamerei la linea francescana.
Joseph Ratzinger è stato il collaboratore più stretto di Giovanni Paolo II, il quale venerava in modo particolare la figura di san Francesco d'Assisi, perché il suo messaggio invitava a rompere con la violenza e la possessività, a cambiare visione sulla natura, a sentire per essa una familiarità vitale, a decifrare il mondo come una parola divina. Nel corso del suo pontificato, Papa Wojtyła ha messo sotto accusa il sistema economico che saccheggia il pianeta. L'enciclica Sollicitudo rei socialis (1987) costituisce in sostanza il volto critico, anzi combattivo, dell'ecologia cristiana. La biosfera è un insieme: «Non si può fare impunemente uso delle diverse categorie di esseri viventi o inanimati (…) come si vuole, a seconda delle proprie esigenze economiche». Le risorse naturali sono limitate: «Usarle come se fossero inesauribili, con assoluto dominio, mette seriamente in pericolo la loro disponibilità» per le generazioni future. Un certo tipo di sviluppo minaccia la qualità della vita: «Risultato diretto o indiretto dell'industrializzazione è, sempre più di frequente, la contaminazione dell'ambiente».
Nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1990, che addirittura gli varrà l'appellativo di «khmer verde» da parte degli ambienti neoconservatori, Giovanni Paolo II formula quello che si può definire il decalogo dell'ecologia secondo il cristianesimo, per la cui stesura colui che sarebbe diventato Benedetto XVI ha svolto un ruolo di primo piano. Citiamo alcune idee. Il cammino umano verso la biosfera deve scegliere una via di sobrietà (n. 3). Ogni potere economico che distrugge i «delicati equilibri ecologici» è nefasto (n. 4). Occorre adottare un principio di precauzione, soprattutto di fronte agli Ogm (n. 6). Ogni Stato ha il dovere «di prevenire il degrado dell'atmosfera e della biosfera» nel proprio territorio (n. 8). Come gli ecologisti radicali, la Chiesa vede dunque un legame fra l'ambiente, il sociale, l'economia e la politica, ma vi aggiunge l'etica nella quale percepisce una chiave per cambiare la realtà. Non basta riconoscere questi legami; occorre anche analizzarli e giustificarli. Sarà questo il compito di Benedetto XVI che meriterà così il titolo di «Papa verde».
Benedetto XVI ha parlato di ecologia più di qualsiasi altro suo predecessore. Nella veglia di Pentecoste del 2006 ha invitato i cattolici del mondo a proteggere il creato contro lo sfruttamento egoistico: «Chi, come cristiano, crede nello Spirito Creatore, prende coscienza del fatto che non possiamo usare ed abusare del mondo e della materia come di semplice materiale del nostro fare e volere; che dobbiamo considerare la creazione come un dono affidatoci non per la distruzione, ma perché diventi il giardino di Dio e così un giardino dell'uomo». Riappare qui l'immagine del giardino tanto caratteristica della sensibilità francescana.
Queste idee sono sviluppate e approfondite in tre testi fondamentali che permettono di «pensare l'ecologia»: il messaggio rivolto al mondo in occasione della Giornata mondiale della pace, il 1° gennaio 2010, reso pubblico in piena conferenza di Copenaghen, l'enciclica Caritas in veritate firmata nel giugno 2009, e il discorso menzionato sopra del 3 giugno 2006.
Sono cinque i principi che emergono da questi testi. In primo luogo: è l'uomo che viene per primo. L'uomo è, se posso dirlo, l'alfa e l'omega dello sviluppo, l'agente e il destinatario. Le buone scelte ecologiche rispettano la dignità della persona e i suoi diritti fondamentali. Questa visione si oppone a una concezione utilitaristica per la quale il fine giustifica i mezzi. Come già scriveva Kant, la persona umana non dovrebbe essere mai trattata come un mezzo ma sempre come un fine. La centralità della persona umana evita di porre sullo stesso piano d'uguaglianza tutto ciò che esiste, al punto di parlare di un diritto degli animali o delle piante o anche della materia. Si tratta di un rischio propriamente settario volto a far dimenticare che solo l'uomo è stato creato a immagine di Dio. Ciò non toglie che l'uomo ha dei doveri verso le creature inferiori a lui affidate.
In secondo luogo: l'uomo non può essere dominato dalla tecnica. L'ecologia è innanzitutto una questione etica. Certo, essa deve fondarsi su mezzi tecnici, ma la tecnica non può rispondere a tutte le sfide lanciate alla «salvaguardia del patrimonio del creato». Il rischio di una civiltà tecnica è di lasciar credere che la tecnica risolverà tutte le questioni. In realtà, è necessaria l'etica se non si vuole che l'uomo diventi schiavo della tecnica.
Il terzo principio: la natura è abitata. In sostanza, l'ecologia si deve fondare non su un rapporto di forza e di dominio, come nei casi di sfruttamento estremo, ma su un'alleanza, su un rapporto armonioso fra l'essere umano e lo sviluppo (Caritas in veritate, n. 50). Troviamo qui, con la sfumatura francescana già rilevata, ciò che potremmo chiamare la dimensione professante dell'ecologia cristiana. La natura non è il risultato del caso o della necessità: per il credente è «espressione di un disegno di amore e di verità» (ibidem, n. 48). Una simile concezione permette di scartare una visione meccanicistica e utilitaristica. «La natura è a nostra disposizione non come “un mucchio di rifiuti sparsi a caso” (Eraclito), bensì come un dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l'uomo ne tragga gli orientamenti doverosi per “custodirla e coltivarla” (Genesi, 2, 15)». È all'uomo che Dio ha affidato la buona gestione della natura. Attraverso la sua ragione e la sua saggezza, dunque attraverso uno sforzo di cultura, quest'ultimo è capace di «leggere» la natura e di trarne lezioni per condurre la propria esistenza.
La prospettiva cristiana non può corrispondere più di così alle visioni neopagane o panteistiche, tanto in voga ai giorni nostri, che fanno della natura un'entità superiore, in qualche modo divina, più grande dell'uomo.
Inoltre, la specie umana è in realtà una famiglia. I rapporti fra i membri di una famiglia sono segnati da una duplice solidarietà, quella che unisce i membri presenti in modo fraterno (condivisione) e quella che unisce le generazioni (previsione). Lo stesso dovrebbe accadere a livello planetario. Ciò presuppone che gli uomini del nostro tempo si preoccupino delle generazioni future (cfr. Caritas in veritate, n. 48), ma anche che l'accaparramento delle risorse energetiche non rinnovabili da parte di alcuni (Stati o imprese) faccia spazio a una condivisione con i Paesi più poveri (cfr. ibidem, n. 49). La difficoltà di quest'ultima sfida è evidente: le società tecnologicamente avanzate sono pronte a diminuire il proprio consumo energetico? Come si può concepire una ridistribuzione a livello planetario delle risorse energetiche?
Occorre quindi, ed è il quinto punto, cambiare mentalità. Le cose non possono continuare così: le risorse si esauriscono, il creato si degrada. È dunque necessario e persino urgente cambiare stile di vita. «Il cambiamento di mentalità in questo ambito, anzi gli obblighi che ciò comporta, deve permettere di giungere rapidamente a un'arte di vivere insieme che rispetti l'alleanza tra l'uomo e la natura, senza la quale la famiglia umana rischia di scomparire».
Tale cambiamento deve portarci ad adottare nuovi stili di vita contraddistinti dalla sobrietà (questo principio non piacerà alle mentalità consumistiche). L'ecologia non rivela solamente il rapporto fra l'uomo e l'ambiente, ma anche il rapporto dell'uomo con se stesso. «I doveri verso l'ambiente derivano da quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri» (Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2010). Il modo in cui quest'ultimo si riferisce al suo consumo, alla sua igiene, alla sua sessualità, alla sua concezione dell'alterità, alla cultura, al suo ruolo nella città, permette di delineare una vera ecologia umana, vale a dire una nuova arte di vivere.
Benedetto XVI fa opera profetica quando dichiara: «L'umanità ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale; ha bisogno di riscoprire quei valori che costituiscono il solido fondamento su cui costruire un futuro migliore per tutti. Le situazioni di crisi, che attualmente sta attraversando -- siano esse di carattere economico, alimentare, ambientale o sociale --, sono, in fondo, anche crisi morali collegate tra di loro. Esse obbligano a riprogettare il comune cammino degli uomini» (ibidem). I suoi appelli a uno stile di vita più sobrio e a modelli di consumo controllati -- che rimettono in dubbio il dogma del consumismo dilagante -- saranno ascoltati? Non si chiede ai profeti di essere popolari; quelli veri non lo sono mai. Ci si aspetta che disturbino. Dopo il fallimento di Durban, questo «Papa verde» non perde occasione per farlo.
(©L'Osservatore Romano 4 gennaio 2012)
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