Diventerà cardinale Ries, padre di una nuova antropologia
La religiosità non è «roba da matti»
Silvano Petrosino
Un antropologo diventa per la prima volta cardinale. Con la nomina di Julien Ries resa nota ieri dal Papa, si consacra l’esistenza che lo studioso belga (92 anni, a lungo docente a Lovanio, il cui archivio è stato donato pochi anni fa all’Università Cattolica di Milano) ha dedicato all’homo religiosus.
Julien Ries è unanimemente considerato il padre di quella ch’egli stesso ha definito «una nuova antropologia religiosa fondamentale».
Al centro di tale antropologia è posta appunto la nozione di homo religiosus, vale a dire l’idea di un uomo la cui stessa soggettività, prima ancora delle risposte ch’essa mette in atto e dei sogni di cui purtroppo è spesso vittima, è in se stessa strutturata o abitata dal riferimento ad una alterità/trascendenza che non può essere né evitata né dominata. Lo studioso belga non si è stancato di ripeterlo in ogni suo scritto: «Nella storia dell’umanità, l’uomo religioso è l’uomo normale. Con Eliade possiamo dunque dire che il sacro è un elemento della struttura della coscienza e non un momento della sua storia».
Come intendere un’affermazione così impegnativa? A questa domanda l’intera opera di Ries risponde con chiarezza: la coscienza del soggetto si costituisce come tale in relazione all’autocoscienza (il soggetto ha coscienza di aver coscienza), in relazione all’apertura all’eccedenza/alterità della trascendenza (esperienza dello stupore) e in relazione all’emergere del sentimento dell’angoscia per la morte.
Queste 'tre' relazioni, richiamandosi e definendosi l’un l’altra, si stabiliscono sempre contemporaneamente, dando così vita ad un intreccio che costituisce la trama stessa di quell’esperienza all’interno della quale qualcosa come una coscienza prende forma.
L’apertura di questa scena, di una scena che proprio a partire da questo si qualifica come 'umana', e lo stringersi di un tale legame, precedono, se così ci si può esprimere, la ricerca di soluzioni ai problemi posti dalla violenza e dall’aggressività che «alberga nel cuore delle comunità umane», e la precedono proprio perché di questa ricerca ne sono in verità l’origine. In altre parole, il religioso atterrebbe a quel dato immediato che definisce l’'uomo normale' e 'di sempre', quell’uomo la cui stessa coscienza, proprio in quanto e perché umana, si trova fin dal principio costituita dall’esperienza del sacro.
Tale ipotesi sovverte radicalmente lo schema interpretativo secondo il quale, non tanto e non solo la religione, ma la stessa esperienza del sacro o religiosità, sarebbe sempre e solo una sorta di sovra-struttura: all’origine (ecco la struttura) vi sarebbero l’insicurezza materiale e l’angoscia esistenziale, in un secondo tempo (ecco la sovra-struttura) emergerebbe il religioso con il suo potere consolatorio. All’interno di questa prospettiva tutto ciò che attiene al sacro/religioso finisce inevitabilmente con l’emergere come la contromossa che la psiche umana mette in atto, in un secondo momento e in mancanza di altro (ad esempio, sostengono alcuni, in attesa della scienza), al fine di superare l’angoscia che attanaglia il soggetto.
In un recente incontro con Sante Bagnoli (presidente della Jaca Book, la casa editrice che pubblica l’Opera omnia di Ries), questi efficacemente osservava: «All’interno della storia delle religioni si è spesso tentato di togliere rigore e operatività al concetto di homo religiosus, che per molti risulta estremamente ingombrante».
Ma soltanto i grandi scorgono nuovi campi, e Ries ha offerto un campo ove l’uomo possa continuare a dispiegare la sua grandiosa avventura esistenziale, da soggetto 'normale', in quanto religioso, e non 'angosciato' o 'psichicamente disturbato', come vorrebbe qualcuno.
© Copyright Avvenire, 7 gennaio 2012 consultabile online anche qui.
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