Dal 27 al 31 agosto si è svolta a Rocca di Papa, presso il centro di spiritualità Mondo migliore, la quarantesima settimana di studio dell'associazione professori e cultori di liturgia. Tema di quest'anno «Il concilio Vaticano II e la liturgia: memoria e futuro». Pubblichiamo stralci di tre delle relazioni presentate.
di Gilles Routhier*
Il concilio Vaticano II, come il Tridentino, vuol dare vita a una riforma liturgica e darle un carattere universale, il che a Trento costituisce una innovazione. In questo possiamo avvicinare i due concili. Tuttavia i due concili, pur perseguendo la stessa impresa riformatrice, si distinguono almeno su tre piani.
Innanzitutto il metodo che guida la riflessione e che finisce per determinare l'esposizione: in un caso la risposta da dare a un catalogo di abusi o di dicta dei riformati; nell'altro la proposta di una strada alla Chiesa sulla base di una lunga riflessione che attinge alla tradizione e alle fonti liturgiche e un lungo tempo di sperimentazione e di apprendistato che permette un discernimento. Vi è poi un orizzonte limitato ai Paesi latini e mediterranei in un caso; il mondo intero e la diversità dei popoli e delle culture nel Vaticano II. Infine abbiamo un progetto di revisione del messale affidato a una commissione stabilita dal Papa in entrambi i casi; ma nel primo caso una commissione che lavorò senza poter beneficiare di una vera scienza liturgica e senza disporre di principi e norme di orientamento offerti dal concilio; e nel secondo una commissione che beneficiò del lavoro di oltre un secolo sulle fonti liturgiche e il cui lavoro era tracciato dai principi e dalle norme che godevano di autorità conciliare.
Dunque da una parte è nel confronto tra concilio di Trento e Vaticano II che si delinea l'originalità di quest'ultimo, e, dall'altra, è ponendo il Tridentino e il Vaticano II nella lunga tradizione conciliare che possiamo vedere emergere l'originalità o la singolarità della Costituzione Sacrosanctum concilium del Vaticano II in quella stessa tradizione. Così possiamo concludere che mai a tal punto una riforma liturgica beneficiò della grande autorità di un concilio ecumenico.
La letteratura sulla liturgia, tanto quella di natura scientifica quanto quella di natura militante e polemica, è oggi sovrabbondante. Detto questo, dopo una prima analisi mi è sembrato, con mia grande sorpresa, che tutto sommato disponiamo di ben poca studi ermeneutici della Costituzione sulla liturgia. (...) Di lavoro specifico sull'interpretazione della Costituzione ne troviamo poco, se non frammenti nei quali si cerca di interpretare l'uno o l'altro elemento del suo insegnamento.
Possiamo interpretare in modi diversi questa osservazione. Essa può significare che si ritiene realizzato il programma della Sacrosanctum concilium nella riforma liturgica (i libri liturgici che ha prodotto e le prassi liturgiche che ne scaturiscono). In questo modo ci esimiamo dal tornare all'originale, accontentandoci della mediazione rappresentata dai frutti della riforma. Il lavoro ora si concentra sul presente: la riforma liturgica, i libri liturgici, le istruzioni, le prassi liturgiche, e così via. Leggiamo in perfetta continuità la Costituzione sulla liturgia e la sua recezione, essendo quest'ultima la ripresa dell'insegnamento del concilio nella storia e nella diversità delle culture e dei luoghi.
Per contro altri, ai quali ha aperto la strada il cardinale Ratzinger, hanno cercato di recidere i frutti della riforma liturgica dallo stesso insegnamento conciliare. Da un lato ci sarebbe l'insegnamento del concilio e, dall'altro, quello che ne è stato fatto e che non sarebbe sempre fedele all'insegnamento conciliare. Questo porta a un appello a tornare alla lettera del concilio, che autorizzerebbe una riforma della riforma. Nel caso, non si vuol rinunciare al concilio e si continua a richiamarne i testi -- almeno in linea di principio, ma si è pronti a riconsiderarne i frutti. Tuttavia, non a tutti coloro che sostengono questa posizione, che ha fatto scuola, è del tutto chiaro quali sono i frutti contaminati della riforma che sarebbe necessario riformare (si tratta delle prassi, dei libri liturgici, quali, e via dicendo), e a partire da quali principi e da quali norme si dovrebbe portare avanti la riforma della riforma.
Ben più che una variante di questa posizione è quella ancor più radicale di coloro che cercano di tornare ai libri liturgici precedenti la riforma, tentano di gettare discredito su tutta la produzione del Consilium ad exequendam constitutionem de Sacra Liturgia, adducendo che i libri liturgici sono viziati dal fatto di essere stati prodotti da «esperti» o burocrati, nel senso dispregiativo del termine, che non conoscevano la tradizione e che avrebbero manipolato Paolo VI. Coloro che sostengono questa posizione ignorano completamente la Costituzione sulla liturgia, essa semplicemente non esiste.
Così, progressivamente, tutta l'attenzione ha finito per concentrarsi sulla riforma liturgica, in particolare sul nuovo Ordo missae, e l'attenzione alla Costituzione sulla liturgia in sé, sulla scia di questo atteggiamento «negazionista», è stata eclissata dalla focalizzazione del dibattito sui libri liturgici.
La distinzione tra la Costituzione e la riforma in sé è legittima. È anche necessaria, perché non possiamo confonderle. È altrettanto vero che la riforma merita di essere presa in esame e che anche il nuovo Ordo missae è soggetto a correzioni e può essere emendato, come del resto è già accaduto nel 1571 per il messale approvato da Pio v nel 1570. Tuttavia, la loro distinzione non deve portare alla dissociazione e ancor meno a relegare nell'ombra la Costituzione, perché questo porta a un diniego del concilio o a farne una grandezza astratta, situata nella sua solitudine e maestà olimpica, che non sarebbe consegnata alla storia e priva di qualsiasi Wirkungsgechichte. Spetta a Giovanni Paolo II aver richiamato, con l'autorità che gli competeva, la continuità tra la Costituzione conciliare e la riforma: «La riforma dei riti e dei libri liturgici [sottolineava] fu intrapresa quasi immediatamente dopo la promulgazione della Costituzione Sacrosanctum concilium e fu attuata in pochi anni grazie al considerevole e disinteressato lavoro di un grande numero di esperti e di pastori di tutte le parti del mondo. Questo lavoro è stato fatto sotto la guida del principio conciliare: fedeltà alla Tradizione e apertura al legittimo progresso. Perciò possiamo dire che la riforma liturgica è strettamente tradizionale ad normam Sanctorum Patrum» (n. 4).
Secondo me, il pressante invito di Giovanni Paolo II a tornare ai principi della Costituzione Sacrosanctum concilium, per perseguire un «approfondimento sempre più intenso» e una «educazione intensiva per far scoprire le ricchezze che contiene la liturgia attuale», non è stato realmente seguito da risultati.
Tutto sommato, le posizioni ermeneutiche esplicite relative a Sacrosanctum concilium non sono così numerose, in mezzo a una letteratura sovrabbondante sulla liturgia del concilio -- concetto incredibilmente indefinito e astratto -- sulla riforma liturgica e sul messale. Per parte sua l'ermeneutica della Costituzione resta un campo ancora relativamente incolto e la sua interpretazione dipende spesso dall'interpretazione generale del Vaticano II, sulla quale troviamo tutta una letteratura che dimentica spesso che la proposta di Benedetto XVI è di applicare un'ermeneutica della riforma «del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa». Pensare la riforma nella continuità, come d'altra parte io indicavo, che autorizza, come suggerisce il Papa, «una qualche forma di discontinuità (...) discontinuità nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi», permane un compito per la teologia e per la Chiesa. Una prassi della riforma non esclude dunque un certo numero di discontinuità, in quanto «è proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a diversi livelli che consiste la natura della vera riforma».
Oggi il discorso della Chiesa cattolica in materia liturgica rischia di venire paralizzato dall'adozione dello stesso metodo del concilio di Trento, e la sua riflessione su questa materia rischia di lasciarsi intrappolare nella risposta che vuole dare ai contestatori, oggi gli integralisti, e agli abusi, adoperandosi per stabilirne una nuova lista. Mi sembra sia giunto il tempo di far rivivere la singolarità e l'originalità del Vaticano II, che ha offerto una esposizione organica e serena sulla liturgia attuando un processo di discernimento, cercando di promuovere ciò che -- nella sua esperienza recente e illuminato dalla lunga tradizione -- può contribuire alla vita della Chiesa. Se lo facesse, risponderebbe all'invito contenuto nella Lettera apostolica di Giovanni Paolo II, Vicesimus quintus annus, che ricorda che «La Costituzione Sacrosanctum concilium ha espresso la voce unanime del collegio episcopale, riunito attorno al successore di Pietro e con l'assistenza dello Spirito di verità, promesso dal Signore Gesù (Giovanni, 15, 26). Tale documento continua a sostenere la Chiesa lungo le vie del rinnovamento e della santità incrementandone la genuina vita liturgica» (n. 14).
Papa Giovanni Paolo II, nel dibattito che a quel tempo agitava la Chiesa, invitava a tornare alla Costituzione e ai «principi enunciati in questo documento [che] orientano anche per l'avvenire della liturgia, di modo che la riforma liturgica sia sempre più compresa e attuata» (n. 14). Il ritorno alla Costituzione e ai principi che essa enuncia rappresenta il cuore della sua Lettera apostolica; davanti ai nuovi problemi emergenti, egli invita a tornare alla Costituzione e ai suoi principi: «Dopo un quarto di secolo, durante il quale la Chiesa e la società hanno conosciuto profondi e rapidi mutamenti, è opportuno mettere in luce l'importanza di questa Costituzione conciliare, la sua attualità in rapporto all'emergere di problemi nuovi e la perdurante validità dei suoi principi» (n. 2).
Non si tratta dunque di ignorare la Costituzione, con il pretesto che il mondo è cambiato e che la situazione attuale della Chiesa non è più quella dominante al tempo del Concilio, ma di tornare incessantemente a ciò che ha un valore permanente e gode sempre dell'autorità ineguagliata, quella di un concilio ecumenico, per offrire criteri ai dibattiti quando si affrontano questioni nuove.
Dunque, distinzione ma continuità tra la Costituzione conciliare e la riforma. Di conseguenza, qualsiasi riforma della riforma o autorizzazione particolare quanto alle prassi liturgiche deve trovare come criterio la Costituzione conciliare, i principi e le norme che essa stabilisce. Non è pertanto possibile continuare il dibattito sui libri liturgici senza riferimento alla Costituzione, che è la chiave di interpretazione non solo dei libri liturgici, dei loro prenotanda, ma anche delle istruzioni di applicazione della riforma. (...) è la Costituzione Sacrosanctum concilium che costituisce l'«esempio primario» in materia liturgica, e tutti gli altri documenti devono poi riferirsi a questa immagine primaria e lasciarsi interpretare dal testo che ha la più grande autorità in materia.
S'impone una seconda conclusione. Il concilio è un momento di discernimento, e sono il suo insegnamento e le sue decisioni che interpretano le precedenti elaborazioni, perché esso opera una selezione tra tali sviluppi, i quali non hanno lo stesso grado di autorità. Di conseguenza non dobbiamo chiederci se è il «primo movimento liturgico» ispirato da Dom Guéranger, il movimento gregoriano o quello che ha avuto impulso da Lambert Beauduin, o ancora il movimento di pastorale liturgica che deve servirci da guida per interpretare la Costituzione; dobbiamo invece considerare che la Costituzione dà un giudizio sui diversi movimenti e, all'interno dei loro rispettivi apporti, discerne ciò che è bene per la Chiesa.
Se la Costituzione non può essere pensata fuori da questi movimenti, tuttavia la sua interpretazione non è semplicemente tributaria di quanto la precede, ma della mens dei padri conciliari.
*Université Laval (Quebec, Canada)
(©L'Osservatore Romano 1° settembre 2012)
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