domenica 21 ottobre 2012

La nuova evangelizzazione e la Chiesa in Africa. Fondamenti di una teologia dell'interculturalità (Barthélemy Adoukonou)


Fondamenti di una teologia dell'interculturalità

La nuova evangelizzazione e la Chiesa in Africa

di Barthélemy Adoukonou*

Se le ragioni della nuova evangelizzazione variano a seconda delle regioni del mondo e del tipo di relazione tra la fede e la ragione, il rapporto tra le culture delle diverse regioni coinvolte è a sua volta in grado di diversificarla. Nel caso concreto dell'Africa e dell'Europa, è necessario evitare la semplice giustapposizione delle problematiche della nuova evangelizzazione che non sarebbe altro che un mero riflesso del loro multiculturalismo. Qui ci si interroga succintamente sulle ragioni storiche che legano le due problematiche -- quella africana e quella occidentale -- e sul fondamento teologico della problematica interculturale della nuova evangelizzazione.
È importante precisare che cosa s'intende oggi con l'«apostasia dell'Occidente» e mettere in chiaro le cause della crisi della fede che coinvolge tutti i Paesi occidentali. Occorrerà anche chiarire, per quanto possibile, le ragioni che fanno sì che si parli dell'Africa sub-sahariana come di un sub-continente che sembra andare a ritroso, che si parli nelle nostre Chiese in Africa di sincretismo, di etnicismo, di guerre fratricide tra cristiani di uno stesso Paese, dove l'80-90 per cento della popolazione è battezzato, di conflitti per accedere al potere nella Chiesa, di malattie della religione africana nell'epoca della modernità e della post-modernità. Il teologo congolese Léonard Santédi l'ha messo ben in luce, ricollegandosi a padre Maurice Pivot, nel numero di «Esprit et vie» del gennaio 2012.
Se l'opzione atea illuminista ha finito con l'avere un impatto civilizzante di più ampio spettro, il cui indicatore culturale più significativo è, da una parte la cancellazione pura e semplice delle radici cristiane dalla Costituzione europea, e dall'altra la scomparsa del riferimento a Dio nella vita sociale, parallelamente nelle Chiese particolari africane si osserva una tendenza ad annullare la differenza esistente tra la storia della salvezza e la storia generale universale, che ha avuto come effetto, per esempio, la nascita della teoria detta delle tre «m» (militare, mercante, missionario). Secondo tale teoria, per liberarsi, l'Africa dovrebbe rifiutare l'imperialismo occidentale, sul piano sia socio-economico e politico sia culturale e spirituale. L'Africa dovrebbe rifiutare anche la penetrazione al suo interno del profetismo giudeo-cristiano.
Ma dal punto di vista storico ogni Chiesa particolare africana è il frutto di una missione evangelizzatrice che, in sostanza, non ha nulla in comune con le missioni di conquista e di accaparramento delle risorse materiali. Mentre il militare e il mercante erano occupati in questa missione imperialistica, il missionario del Vangelo era invece al servizio della buona Novella di Dio rivelatasi in Gesù Cristo come Trinità d'amore, creando l'uomo a sua immagine e somiglianza. Ogni Chiesa, nata in un angolo sperduto dell'Africa, è divenuta il luogo di un risveglio di quel possibile divino che dorme nel fondo della forma antropologica africana che sta emergendo in questo spazio etno-socio-culturale. Se la Chiesa è potuta nascere in tanti spazi geografici africani, è perché dei messaggeri della buona Novella sono venuti a vivere con i loro fratelli e sorelle africani e ad annunciare Gesù Cristo. Il loro obiettivo non aveva nulla in comune con quello del mercante e del militare.
Noi dobbiamo assolutamente, sulla base di una storiografia autonoma, riavviare la nostra auto-comprensione come Chiesa africana. Visto di fatto che la cesura radicale della cultura con la religione operata dall'illuminismo fa sentire i suoi effetti a tutti i livelli e su tutti i piani, è necessario che gli africani mostrino la loro autonomia di lettura della storia fino a giungere a una critica delle opzioni filosofiche che le diverse letture storiche impongono. Per molti l'essenziale si gioca su questo piano. L'autonomia di approccio alla storia da parte delle diverse formazioni storiche dà avvio a un necessario e legittimo conflitto delle storiografie e dunque delle narrazioni. Il soggetto ecclesiale africano è chiamato oggi a esercitare la propria responsabilità prima di tutto nel campo della verità dello sguardo, della visione che impone la lettura della storia come ritorno alle fonti. L'interculturalità autentica è possibile solo in funzione della inter-storicità, anch'essa imposta dall'angolo visivo o dalla vigilanza che deve animarla.
La storia della tratta negriera, delle rotte degli schiavi, e in particolare del commercio triangolare, comprende un documento di cui l'uomo politico, il re Luigi XIV, detto il «re Sole» è stato il firmatario: il Code Noir (1685). Questo documento giuridico dice all'articolo 44: «lo schiavo è un bene mobile». Ma per il missionario che andava lì per annunciare la buona Novella della salvezza in Gesù Cristo, era un essere umano creato a immagine e somiglianza di Dio, che meritava il sacrificio di vite apostoliche giovani per far sapere che in Gesù di Nazaret Dio ha amato l'umanità, tutta l'umanità alla follia, e che in quello stesso Gesù, fratello universale, l'umanità ha anch'essa già risposto con un'eguale follia d'amore. La storia della salvezza si prolunga nella storia missionaria. Mentre il militare e il mercante avevano fatto violenza all'Africa, l'avevano spogliata e lasciata come morta lungo il cammino di Gerico, il missionario del Vangelo, figura storica del buon Samaritano, era andato lì per curarla, per sollevarla e ristabilirla nella sua dignità e responsabilità, lungo la via di una storia da costruire insieme, come storia degna di Dio e degna dell'uomo nuovo che a sua volta l'africano è diventato.
La questione della nuova evangelizzazione è anche quella dell'evangelizzazione in inter-culturalità, è la testimonianza storica concreta della realtà della Chiesa nata e profeticamente presentata al mondo interculturale, fin dal mattino della Pentecoste. Ciò è ancora più urgente perché la Chiesa universale, per essere credibile, deve smettere di dare l'impressione di essere eurocentrica e di limitarsi a tollerare le altre Chiese particolari. Essa deve divenire veramente interculturale.
Papa Benedetto XVI, quale profeta del mondo contemporaneo, l'ha indicato attraverso un duplice orientamento teologico e pastorale che il Pontificio Consiglio della Cultura si sforza di mettere in pratica come articolazione metodologica concreta della nuova evangelizzazione: il Cortile dei Gentili e l'interculturalità.
In particolare, l'interculturalità è auspicata da tutte le culture che, incentrate sulla parte più decisiva di se stesse, che è la fede che le fonda, accettano come il cristianesimo di uscire dal tempio -- da quello che è dentro di loro -- per andare a dialogare con i Gentili nel cortile che è stato loro riservato secondo l'ebraismo. L'interculturalità, per essere autentica, implica quindi l'accettazione da parte di tutte le religioni del fatto che, prima di ogni soggetto culturale e religioso, è Dio stesso che ha preso l'iniziativa di mettere fine a qualsiasi esclusione. In suo Figlio, Gesù di Nazaret, messo a morte, ma risorto il terzo giorno, ha abbattuto il «muro di separazione» e ucciso l'odio, affinché non esistesse che un solo uomo nuovo, mediante il quale è dato ora a tutta l'umanità di conoscere Dio e di conoscere se stessa. Se Dio sulla croce si rivela ai confini della cultura e dell'umanità nella figura singolare di questo unico Uomo nuovo, rivela anche a ogni individuo nella sua particolarità socio-culturale che proprio questo uomo nuovo è la matrice, il crogiolo singolare del suo atto creatore.
Cosa possono apportare le altre culture e religioni a questo crocevia che rende possibile ogni forma d'interculturalità? Siamo incapaci di dirlo, possiamo solo lasciarlo accadere. Non possiamo vivere «il tempo delle nazioni» (cfr. Luca 24; Catechismo della Chiesa Cattolica, 56) come loro procuratori. Esse devono accedere da sole al compimento dei tempi che la fede ci dice essere giunto in Gesù Cristo (cfr. Galati 4, 4). Il missionario della nuova evangelizzazione deve formarsi all'interculturalità. Del fatto che ogni «uomo dal cuore retto», partendo dal più profondo della sua cultura e della sua religione per aprirsi al dialogo con le altre culture, sia capace di comprendere e di accogliere la rivelazione di Dio nel luogo preciso della Croce, troviamo un'indicazione lontana, ma, a nostro avviso, certa, nella figura di Mahatma Gandhi, il cui Ashram non includeva alcuna figura del politeismo indù, ma solo la figura di Cristo che ascende nella gloria.
Formare dunque all'interculturalità così intesa, vuol dire vivere nel più grande rispetto degli altri, che consiste nel lasciare loro il tempo e la libertà di capire da soli che è Dio stesso a inaugurare il dialogo con tutte le culture nell'abolizione di ogni muro culturale di separazione e di esclusione.

*Vescovo, segretario del Pontificio Consiglio della Cultura

(©L'Osservatore Romano 21 ottobre 2012)

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