Quando si recuperarono i colori del genio
Il 25 marzo 1990 nel Braccio di Carlo Magno veniva inaugurata dal Papa la mostra «Michelangelo e la Sistina. La tecnica, il restauro, il mito », organizzata in stretta collaborazione dai Musei e dalla Biblioteca Apostolica Vaticana; e il giorno successivo si apriva a Palazzo della Cancelleria un convegno internazionale sullo stesso tema. Entrambe le iniziative nascevano dalla stessa esigenza: mettere a disposizione del pubblico tutte le informazioni raccolte così da consentire una prima compiuta analisi delle problematiche e dei risultati del lavoro svolto. La mostra si rivolgeva ovviamente al grande pubblico, il convegno a quello più ristretto degli specialisti, ai quali proponeva tra l'altro la visione dei primi test di pulitura eseguiti sul Giudizio universale creando una sorta di ponte tra le problematiche del passato e quelle del presente, e un'occasione per ripercorrere le tappe della straordinaria operazione che ha portato alla riscoperta del colore originale del capolavoro michelangiolesco.
Tra il 1964 e il 1974, con la supervisione di Deodecio Redig de Campos che dal 1971 al 1978 ha anche diretto i Musei Vaticani, si era affrontata, con i mezzi di cui in quel tempo si disponeva, la pulitura della serie quattrocentesca delle Storie di Cristo e di Mosè. Essa era stata preceduta tra il 1935 e il 1938 dal consolidamento degli intonaci di metà della volta e delle lunette. Montato il ponte sulla parete d'ingresso della cappella si era giunti quasi a toccare le lunette dipinte da Michelangelo con gli Antenati di Cristo. Il restauratore capo Gianluigi Colalucci colse allora l'occasione per effettuare un minuscolo saggio di pulitura della grandezza di un francobollo sulla lunetta rappresentante Mathan ed Eleazar; il saggio fu poi allargato fino a comprendere l'intera lunetta. Riapparvero allora, perfettamente conservati sotto lo spesso strato di polvere, di fumo e di colle alterate, i colori originali della pittura michelangiolesca, «quei colori -- ricorda Carlo Pietrangeli, l'allora direttore generale dei monumenti, Musei e Gallerie Pontificie -- che eravamo abituati a vedere nelle opere della prima generazione dei manieristi fiorentini e che Michelangelo stesso aveva usato nel Tondo Doni».
«Fu necessaria a questo punto -- continua Pietrangeli -- una pausa di riflessione per decidere il da farsi; si presentava infatti davanti a noi la possibilità di realizzare un'operazione di altissima responsabilità il cui risultato si rivelava estremamente importante per la stessa storia dell'arte. Ma una considerazione ci spinse a dare inizio senza indugi a questa opera: in più punti della superficie pittorica la pittura di Michelangelo veniva “strappata”, a causa delle variazioni di umidità e temperatura, dagli strati di colla spalmati nei secoli passati sugli affreschi per migliorarne la leggibilità e per mascherare gli sbiancamenti delle salificazioni prodotte dalle infiltrazioni d'acqua piovana».
«La pulitura degli affreschi -- continua Pietrangeli -- si rivelava quindi non solo auspicabile per recuperare il colore originario, ma urgente e non dilazionabile per assicurare la conservazione stessa degli affreschi». Per compiere il restauro della volta era stato costruito un apposito carro-ponte in leghe metalliche leggere che utilizzava per l'appoggio i fori dei “sorgozzoni” del ponte michelangiolesco, venuti alla luce nel corso della pulitura ai piedi delle lunette delle pareti lunghe della cappella.
(©L'Osservatore Romano 31 ottobre 2012)
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