lunedì 9 luglio 2012

La festa che ci manca. Un momento che ha perso la sua natura comunitaria e che ormai viene rivestito di ogni cosa (Sequeri)

Un momento che ha perso la sua natura comunitaria e che ormai viene rivestito di ogni cosa


La festa che ci manca


Dovrebbe esprimere non ciò che facciamo nel tempo bensì quello che intendiamo fare del tempo
Anticipiamo alcuni stralci di uno dei saggi in uscita sul prossimo numero di «Vita e Pensiero».


di Pierangelo Sequeri


Il barocco controriformista era tutta una festa. La modernità borghese nacque anti-festiva. Nell'algida e ossessiva nuova etica del profitto capitalistico, ad ascoltare i grandi racconti del passaggio d'epoca, la festa era condannata a sparire «nelle gelide acque del calcolo egoista», secondo Marx. La festa tradizionale, intesa come evento comunitario totale e simbolo di ricomposizione con l'umano comune, viene irresistibilmente associata all'inerzia del “costume paesano”. Nell'ottica industriale-urbana, il tempo della festa si presenta come perdita di tempo e di denaro, se non addirittura come frivolezza improduttiva e fannullona, che disperde le forze produttive distraendole dall'ottimizzazione del rendimento. Nella festa popolare, il segno della ritualità e della comunanza dice immediatamente del suo carattere obsoleto: la trasgressione, dove appare, suona volgare; la matrice religiosa, quando è dominante, denuncia sottocultura.
Questo mutamento -- della realtà e dello sguardo -- rimane ancora in circolazione, in ragione della continuità dei processi di una modernità economicistica e secolarizzata. Nel frattempo, però, sul filo dei corsi e ricorsi della storia, i favolosi anni Sessanta rimisero in circolazione l'idea del ritorno alla festa totale: con due fondamentali varianti, però, rispetto alla tradizione.
In primo luogo si trattava di dare “forma di festa” all'intero della vita: è la routine che deve rappresentare l'eccezione. Poi vennero Marcuse, l'immaginazione al potere, i figli dei fiori. E il terrorismo armato: che si divorò l'utopia, ma lasciò intatta l'inerzia diffusa di una mistica del godimento senza nessuna ascesi del sacrificio. Di questo ideale (si fa per dire), si è poi impadronita la nuova borghesia finanziaria del successo, del lusso, dell'accumulo e dello spreco, cercando di imporlo come mito collettivo. Insomma, la vita riuscita è quella che riesce a iscriversi interamente nel “clima della festa” permanente. Questa è la bolla appena scoppiata. Non abbiamo ancora deciso che partito trarne (certo non sarà facile ammettere che ci eravamo sbagliati sull'ideale, non sui mezzi per conseguirlo). Vedremo.
Nel frattempo, però, l'intellighenzia occidentale -- ed è il secondo aspetto nuovo -- non ha mancato di fare la sua parte. In questi decenni, la vistosa complicità di una grossa fetta del ceto intellettuale riflessivo ha cercato di spiegarci che l'insuccesso dell'ideale -- la vita come festa, liberazione del desiderio -- è dovuto al fatto che non riusciamo a essere abbastanza coraggiosi per contestare le sottili mortificazioni del dominio: delle regole e dell'etica, dell'ordine costituito e dei sensi di colpa. Insomma, abbiamo capito che la felicità è sotto il segno di Dioniso, ma non abbiamo abbastanza fede nel seguirne la via. Della festa si può rivestire ormai qualsiasi cosa.
D'altra parte, anche là dove si riscoprono le componenti tradizionali della festa continua a mancare la “festa totale”, ossia la “festa di tutti”. L'apparato mediatico è in grado di “rivitalizzare” la sua forma: un contenitore che si può allestire in qualsiasi momento, con qualsiasi oggetto, affidandolo a professionisti della celebrazione e dell'animazione. È la festa popolare nell'epoca della sua riproducibilità di massa. Festival del lambrusco e Festival della filosofia, a piacere.
La fruizione di questa festa -- anche quando è di massa -- è sempre più spiccatamente individuale. La specializzazione, che la rende esclusiva, è attrattiva per le masse escluse dalle forme realmente esclusive della festa. Raramente il suo soggetto è una comunità. Quasi inesistente è, in essa, la celebrazione dell'umano che è comune. L'ultima volta che abbiamo festeggiato il nostro orgoglio di essere umani, e ci siamo sentiti fieri dei sacrifici che facciamo per rimanere umani, è stato forse lo sbarco sulla Luna.
La liquefazione della festa, che tende a risolversi nei suoi ingredienti (il gioco, il riposo, la trasgressione, lo spettacolo) e nella loro artificiosa moltiplicazione, induce la perdita di qualcosa della festa che non si lascia risolvere nel festeggiare qualcosa. Non si tratta di un'alternativa fra due fatti (umani, religiosi e sociali) che devono per forza escludersi a vicenda. Nel festoso barocco, Lutero urgeva la riduzione della festa (cristiana) alla domenica. E tuttavia, il cristianesimo non può semplicemente dissolvere ogni altra dimensione del festeggiare: esso stesso ne coglie in molti modi l'alleanza con la dimensione del simbolico e la dialettica con la componente utilitaristica. La vitalità della prima si lascia volentieri polarizzare dal festeggiamento, la necessità della seconda deve essere moderata dalla sua ossessione.
Rimane il fatto che il momento della sincronicità della festa e della convocazione della comunità assolve una funzione indispensabile rispetto alla varietà delle occasioni, delle motivazioni e dei contenuti del festeggiare. Il suo contenuto costante è la memoria dell'evento fondatore della comunità, che istituisce la festa come il tempo nel quale si rinnova la gioia della sua memoria e lo struggimento della sua promessa.
Il cristianesimo ha iscritto nella memoria festosa della risurrezione del Signore e dell'inizio della missione apostolica la convocazione della comunità per l'eucaristia della sua morte che ci salva dalla perdutezza e del convito che sostiene l'attesa del suo ritorno. Questa memoria storico-fondativa non è semplicemente sostitutiva e alternativa al motivo cosmico-fondativo della festa mitica: lo include e lo invera, attraverso la rivelazione del fondamento cristologico della creazione e della rinascita. In tal senso, l'asse cristiano della festa fondativa della comunità cristiana insiste nel punto di congiunzione con il motivo della fondazione della comunità dell'umano.
Il punto chiave della differenza è che, in virtù dell'incarnazione -- indissolubile e irrevocabile -- del Figlio dell'Unico Dio, questa comunità umana, e i suoi singoli componenti, è ogni volta il focus del riscatto della condizione umana per la vita eterna. In altre parole, non si tratta di un gruppo (un'assemblea, una comunità, una generazione) a perdere, nel ciclo dell'infinita ripetizione della vita, in cui una determinata popolazione di individui ha sostituito la precedente e sarà sostituita dalla successiva, perché la vita continua sovranamente indifferente a chi l'abita. Qui il cristianesimo entra in rotta di collisione con una celebrazione della vita -- cosmologica, biologica, produttiva, gaudente -- che sancisce l'irrilevanza di questo singolo umano e di questa singolare comunità umana, in ordine al compimento di senso del legame d'origine e di destino che non si potrà spezzare. E al quale tutti noi apparteniamo in modo essenziale: non come variabili congiunturali ed evolutive del flusso anonimo di un assoluto naturale.
Questo novum è ciò che si è profondamente indebolito e rarefatto: non solo nei suoi effetti antropologici e sociali, ma anche nella coscienza cristiana più diffusa. Un po' per l'indistinto degli eventi di massa, in cui la festa cerca di rivivere come fenomeno collettivo (che non è necessariamente comunitario, anzi) al quale si accede individualmente e dispersivamente, scegliendo fra le molteplici offerte. Un po' per la rilettura del momento sabbatico, incluso nella festa di fine-settimana, con il tempo libero e con il tempo della ri-creazione, che favorisce un semplice svuotamento del tempo e la corrispondente ossessione di riempirlo.
Ma queste, infine, sono le condizioni prossime e congiunturali (benché di portata sistemica) di quella perdita. Essa, in realtà, si è prodotta prima, mediante un corposo alleggerimento culturale della pregnanza dell'arco temporale dell'esistenza, nel quale avviene l'iniziazione del singolo -- e di ogni generazione -- alla segnatura irrevocabile della propria partecipazione alla comune destinazione. La festa che ci serve (e ora ci manca così tanto) non porta in scena quello che facciamo nel tempo, bensì quello che intendiamo fare del tempo. Vogliamo consumarlo? Allungarlo? Fermarlo, godercelo, ignorarlo? Riempirlo di cose buone, svuotarlo di quelle cattive? Liberarlo del già vissuto e riconvertirlo sempre daccapo nel puro possibile? Il nostro modo di fare festa è infallibilmente rivelatore proprio su questo tratto di concentrazione simbolica del senso del tempo. Dice infallibilmente quello che vogliamo fare del tempo -- o quello che vogliamo che sia -- nell'intero della nostra vita, dalla nascita alla morte: e con tutto quello che vi passa attraverso.
Il cristianesimo, facendo perno sull'integrazione del riposo sabbatico, della pasqua cristologica e della celebrazione eucaristica, sottrae la festa -- come celebrazione dell'evento fondatore e redentore del tempo -- alla sua risoluzione nella scissione e nella deriva (religiosa e/o secolarizzata) delle sue componenti. Vale a dire, la risoluzione della festa nel puro tempo libero della ricreazione (il sabato senza cristologia e senza eucaristia); nella pura commemorazione mitica dell'evento fondatore (la semplice conferma dell'identità cristiana nella ripetizione del suo inizio, senza la riassimilazione del gesto creatore nel sabato di Dio e senza l'uscita sacramentale dal tempo quotidiano della parola e dell'azione autoedificante della comunità); nella pura ripetizione e celebrazione rituale del culto (l'eucaristia senza l'emozione dell'incontro con il Risorto e senza la letizia del sabato di Dio).
La deriva antropologica della perdita del tempo -- nel senso più radicale -- che consegue alla risoluzione della festa che ci manca in ciascuna di queste componenti, è appunto visibile nell'odierna scissione dell'oziare, del festeggiare, del ritualizzare i dispositivi più vari dell'evasione del tempo della vita da sé stesso. La festa fondatrice, al contrario, è il momento della intensificazione e dell'enfasi simbolica del rientro del tempo nel suo midollo intimo e trascendente: grazie a Dio, il vivere è molto di più della vita, il lavorare è molto di più del lavoro, il riposare è molto di più del riposo, e la gioia profonda del voler bene è molto di più del bene (e dei beni) dei quali si sostenta.
Incominciando da ciò che è più essenziale -- e anche più vicino al nucleo -- si potrebbe nondimeno prendere in considerazione, già ora, l'idea di un segno forte. Il giorno del Signore, l'eucaristia domenicale, la festa della ripetizione sacramentale della pasqua del Signore, insomma, potrebbe prendere un po' di significativa distanza dall'enfasi del semplice festeggiare: indiscriminatamente applicato a un contenuto cristiano che, semplicemente in virtù del suo oggetto, fa la differenza. La festa che ci manca è un atto di riconoscimento: di ciò che la comunità è, e di ciò per cui la comunità è, nel tempo della sua stessa dispersione e nel contesto della collettività più o meno anonima con la quale condivide l'avventura del tempo, con le sue speranze e le sue disperazioni.
Il riconoscimento è un atto grave, serio e riflessivo. E al tempo stesso, un atto commovente, gioioso, consolante.
Il Signore risorto è il tema del riconoscimento, e anche il luogo in cui il riconoscimento diventa motivo di legame e promessa della sua custodia. Nel tempo. E fino a che Egli venga. Non è la stessa cosa che l'animazione religiosa del villaggio. Da sempre, la festa di (ri)fondazione del tempo (ri)congiunge i dispersi per la potenza intrinseca del simbolo che essa contiene, in quanto coscienza della vita restituita alla riapertura del senso totale e radicale del tempo.
Questa festa raggiunge anche i dispersi che non possono essere fisicamente presenti. Perché non è neppure l'eccitazione dionisiaca del puro sentirsi vivi (e chi c'è, c'è). La domenica cristiana conserva il nucleo della polarità necessaria: la celebrazione del sacramento (il momento del festoso silenzio dell'agitazione dei corpi e del rumore della chiacchiera, da restituire al puro incantamento e rimescolamento interiore della ierofania); il libero riconoscimento del legame comunitario essenziale (il momento della conversazione e della memoria dei suoi legami, che dovrebbero essere restituiti all'ospitalità dei coinquilini della stessa cittadinanza e al gemellaggio con le comunità sorelle nelle regioni difficili). È proprio impossibile articolare creativamente e limpidamente, intorno alla festa cristiana più semplice e più essenziale, questo punto di gravità (e di leggerezza) della festa che manca (a tutti)?

(©L'Osservatore Romano 8 luglio 2012)

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