Pena dimezzata al maggiordomo del Papa: “Ho agito per amore della Chiesa”. Il Vaticano: sarà graziato
GIACOMO GALEAZZI
CITTÀ DEL VATICANO
Era atteso uno schiaffo, è arrivata una carezza. La sentenza pronunciata ieri «in nome di Sua Santità e invocata la Trinità» fa giustizia in modo «clemente» di Vatileaks, ma l’impressione generale è più quella del colpo di spugna che della scoperta della verità.
Dopo due ore di camera di consiglio Paolo Gabriele è stato condannato a tre anni di reclusione per il furto aggravato dei documenti di Benedetto XVI, però la pena gli è stata dimezzata per l’assenza di precedenti penali, il «buono stato di servizio», la «sopraggiunta convinzione del suo comportamento erroneo» e «la dichiarazione di pentimento».A fine udienza l’ex maggiordomo che ha rubato le carte segrete del Pontefice accenna un sorriso e torna agli arresti domiciliari nella casa d’Oltretevere.
Il suo legale Cristiana Arru tira un sospiro di sollievo: «Buona sentenza, equilibrata», In aula, a darle man forte, c’era anche il padre. Una sentenza «mite», sottolinea il portavoce vaticano, Federico Lombardi. I giornalisti arrivati da tutto il mondo per seguire il processo non fanno quasi in tempo a domandare se Gabriele sconterà la pena in un carcere italiano o gli verrà concessa la condizionale che il portavoce vaticano padre Federico Lombardi indica chiaramente come andrà a finire: la «eventualità della grazia» concessa dal Papa al suo ex maggiordomo è «molto concreta e verosimile». E, senza che gli venga posta la questione, padre Lombardi assicura che non ci sono state interferenze della Segreteria di Stato sul procedimento. Insomma l’incubo Vatileaks sembra superato. Almeno per ora. Il processo al maggiordomo del Papa si è concluso il giorno prima dell’avvio di quel Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione a grave rischio oscuramento sui media. Certo, ci sono altre indagini da fare per capire meglio il ruolo avuto da altre persone, c’è lo stralcio del processo al tecnico informatico della segreteria di Stato Claudio Sciarpelletti, ma comunque se ne riparla dopo ottobre, a sinodo concluso. L’ultima giornata sul banco degli imputati per Gabriele fila liscia come auspicato. Il suo avvocato ha contestato l’accusa di furto, parlando invece di «appropriazione indebita»: ha fotocopiato e non sottratto documenti nell’ufficio che condivideva coi due segretari del Papa. Il furto «implica profitto, e qui non vi è stato vantaggio per Gabriele, ma per un’altra persona», ha precisato il legale in implicito riferimento all’autore di «Sua Santità» Gianluigi Nuzzi. «Il fatto importante - ha aggiunto è che le sue motivazioni morali, seppure condannabili, erano alte e non erano tese a danneggiare la Chiesa ma a giovarle». Infatti riteneva che il Papa non fosse sufficientemente informato ed è stato spinto da una fede profonda, suggestionato non da altre persone ma dal male che vedeva». La pubblicazione questa estate delle perizie psichiatriche, alla fine dell’istruttoria, hanno «danneggiato» Gabriele, perché lo hanno messo alla «gogna» ed esposto al «pubblico ludibrio». Nell’arringa che ha preceduto la sentenza, l’avvocato del corvo ha chiesto il rilascio, mentre il pm quattro anni con lo sconto di un anno per attenuanti. Meno comunque della pena massima di sei anni prevista dal codice di procedura penale. «Si dichiara colpevole o innocente?», ha domandato il presidente del tribunale Dalla Torre all’aiutante di camera. «La cosa che sento forte dentro di me è la convinzione di aver agito per amore esclusivo e viscerale per la Chiesa di Cristo e il suo capo visibile. Non mi sento un ladro». Per lui nessuna interdizione dai pubblici uffici, come richiesto in forma «perpetua» dal pm Picardi per quanto limitatamente agli uffici vaticani «con uso di potere» Gabriele dovrà pagare le spese processuali, non andrà in carcere. Un’applicazione «magnanima» di una legge di Paolo VI del 1969. L’ex maggiordomo, 46 anni, sposato e padre di tre figli, che pur sospeso dal servizio continua sempre a percepire lo stipendio, ha ascoltato la lettura della sentenza con volto impassibile, con un appena percettibile battito delle palpebre. La parabola di Gabriele, da quattro mesi al centro delle cronache mondiali come il «corvo» che ha fatto tremare i Sacri Palazzi, ha conosciuto un punto di approdo, almeno dal punto di vista giudiziario: è lui il colpevole del furto di documenti riservati di Benedetto XVI, lui, e lui solo, perché non ci sono le prove di «complici», ad averli trafugati, fotocopiati e consegnati al giornalista Nuzzi.
Una verità ufficiale consegnata ai libri di storia, che però dovrà reggere la prova delle nuove indagini sulla «rete» del corvo. Qualcuno ha soffiato sulla sua convinzione di essere un «infiltrato» dello Spirito Santo, incaricato di difendere Ratzinger sott’attacco. Senza far luce completa, restano ombre. E alla sentenza manca un reale movente.
© Copyright La Stampa, 7 ottobre 2012
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