A cinquant’anni dalla morte di Giuseppe De Luca
L’intelligenza e la salvezza dell’anima
Paolo Vian
Il 19 marzo 1962 moriva, nell’ospedale dei Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina, don Giuseppe De Luca, prete romano. Giunto quasi alla soglia dei sessantaquattro anni, stava vivendo momenti entusiasmanti e terribili. Il felice rapporto stabilito con Giovanni XXIII sembrava insperatamente riscattare il periodo difficile del pontificato di Pio XII, in cui si era sentito ignorato e incompreso da chi doveva aiutarlo; ma proprio quella relazione nuova e diretta col Papa metteva in crisi i suoi storici legami con gli antichi maestri e colleghi del seminario romano, Domenico Tardini e Alfredo Ottaviani, mentre si profilavano le prime tensioni intorno al Vaticano II che stava per incominciare.
Ma chi è stato veramente De Luca? E cosa significa ricordarlo oggi, a mezzo secolo dalla scomparsa, in un mondo e in una Chiesa vertiginosamente mutati? Di De Luca girano molte, forse troppe immagini. L’amico dei letterati e degli artisti, il generoso sostegno di storici e filologi, il suscitatore di un’ideale accademia di dotti con un’editrice così paradossalmente antieconomica, le Edizioni di Storia e Letteratura, da essere sempre sull’orlo del naufragio e del fallimento; oppure il confidente, l’ispiratore e il ghost writer di politici di vari schieramenti, da Giuseppe Bottai a Luigi Sturzo, da Alcide De Gasperi a Palmiro Togliatti, da Franco Rodano ad Adriano Ossicini. Oppure ancora lo scopritore di una «scienza nuova», la storia della pietà, di quello stato in cui l’uomo sente presente Dio per consuetudine d’amore e lo esprime nelle forme più diverse, dalle poesie raffinate di un Petrarca alle canzoncine spirituali, alle umili devozioni del popolo cristiano. Quasi contemporaneamente alla scuola francese delle «Annales», De Luca proponeva e operava una rivoluzione storiografica ancora più audace: non la mentalità o la lunga durata al posto della storia-battaglia e della grande politica, ma la pietà come vera essenza dell’uomo, al centro di un’antropologia rinnovata. Per questa «storia della pietà» valeva la pena creare un «Archivio», una rivista — davvero il sogno della sua vita — che ne raccogliesse le infinite tracce nelle direzioni più imprevedibili, anche nelle espressioni dell’empietà che, a modo suo, gli appariva una forma di pietà a rovescio, comunque un grido, un’implorazione, un’invocazione.
De Luca, certo, è stato tutto questo e altro ancora, in una personalità incredibilmente complessa e non priva di contraddizioni. Eppure De Luca è innanzitutto altro: un prete che ha fatto del suo rapporto con Gesù Cristo nella Chiesa il senso della sua esistenza; e in nome di questo rapporto ha trasformato la vita sua e di molti altri (da Giuseppe Sandri a Romana Guarnieri, a Giovanni Antonazzi) che lo hanno incontrato. Vivendo in mezzo alla gente (i vecchietti delle Piccole Suore della Carità a San Pietro in Vincoli o i letterati del «Frontespizio» e della Morcelliana), immerso in una vasta e ramificata famiglia meridionale, ai margini di una Curia romana che conosceva come pochi. Ma al tempo stesso da perpetuo outsider, da isolato, da cane sciolto che si paragonava a Benedetto Giuseppe Labre, sicuro di morire sui gradini di una chiesa, però tutto teso a professare una sola certezza che, nelle apparenti variazioni di superficie, lo ha sempre animato con indefettibile coerenza. «Tu hai visto — scriveva all’amico Giovanni Battista Montini il 9 gennaio 1952 — che il mio tentativo era di riscattare il clero italiano da una cultura di echeggiamento e traduzione, e ricondurlo a una dottrina d’iniziativa e di coordinazione. Essere fedeli sino all’estremo della vita, ed essere larghi sino al limite della verità che ha i limiti molto in là (se pure li ha, sinonimo di Dio). Dimostrare, nell’umile fatto, che si può essere con l’erudizione più spinta, con la poesia più nuova, ed essere con Cristo e con la Chiesa: ecco il sogno nel quale ogni giorno cerco di tramutare la mia vita». E sei mesi prima, il 13 giugno 1951, sempre a Montini confidava quale era la sua «mèta vera, la più lontana in apparenza, la più vicina in affetto: l’amore di Cristo, ma insieme con tutta la scienza e con tutta l’arte. Pazzo desiderio, ma necessario, se Lo amiamo davvero. Tutto è suo, ma perché sta nelle mani de’ suoi nemici? Dobbiamo riscattarlo».
Ecco il segreto della sua missione in partibus infidelium, ai confini del Regno: una fede veramente cattolica, larga quanto i confini della verità, amica dell’intelligenza, e per questo capace di parlare con i più lontani. «Ci siamo dimenticati — ricordava De Luca al Comitato Cattolici Docenti Universitari a San Giovanni a Porta Latina il 9 dicembre 1956 — che l’anima non la salviamo, senza impegnare a fondo l’intelligenza. Tutta l’intelligenza. È l’intelligenza una cosa che o c’è o non c’è, ma insomma lei sola dà legna all’amore». Per una Chiesa fedele, consapevole e orgogliosa della sua storia, che è sempre, alla fine dei conti, una mirabile sequela del Maestro. Insomma, ci sono tanti motivi per non dimenticare, a cinquant’anni dalla morte, don Giuseppe De Luca, e per tornare a leggerlo e studiarlo. Perché «l’anima non la salviamo, senza impegnare a fondo l’intelligenza».
(©L'Osservatore Romano 18 marzo 2012)
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