sabato 4 agosto 2012
A colloquio con il cardinale Julien Ries, fondatore dell'antropologia del sacro (Fontolan)
A colloquio con il cardinale Julien Ries, fondatore dell'antropologia del sacro
Un contatto che rivela una realtà superiore
Julien Ries è nato nel 1920 ad Arlon, in Belgio. Sacerdote cattolico della diocesi di Namur, è storico delle religioni e grande studioso di antropologia religiosa. Per oltre vent'anni ha insegnato Storia delle religioni all'Università cattolica di Lovanio, della quale è ora professore emerito. È stato creato cardinale da Benedetto XVI nel concistoro del 18 febbraio 2012.
L'editore italiano Jaca Book ha in corso di pubblicazione l'Opera omnia, il cui piano prevede undici volumi in diciotto tomi. Nel 2009 ha donato all'Università Cattolica di Milano la sua biblioteca, i suoi manoscritti e la corrispondenza che nel corso degli anni ha intrattenuto con studiosi di tutto il mondo: un patrimonio che costituisce presso l'ateneo milanese l'Archivio Julien Ries per l'Antropologia simbolica. A partire dal 1982 ha partecipato a numerose edizioni del Meeting per l'Amicizia tra i Popoli che ogni agosto si svolge a Rimini; anche per quest'anno è in programma un suo intervento nell'incontro intitolato «Homo religiosus» il 20 agosto.
di Roberto Fontolan
Una casa in Belgio, stracolma di libri, di ricordi e di progetti: è la dimora di Julien Ries. Qui incontriamo il professore diventato cardinale, che ancora oggi vi trascorre, immerso nello studio, gran parte del suo tempo.
Eminenza, come è nata questa sua passione per gli studi circa l'uomo religioso?
Nel 1968 sono stato nominato professore di Storia delle religioni all'Università cattolica di Lovanio. Avevo fatto studi di teologia e di orientalismo. La mia tesi esaminava certi testi copti e l'influenza del Nuovo Testamento su questi testi. Quindi mi ero dedicato allo studio comparato di testi religiosi egiziani. Una volta diventato docente dovetti affrontare grandi questioni: l'induismo, il buddhismo, l'islam, le religioni del Mediterraneo, le religioni del Vicino Oriente, l'antica religione egiziana. Notavo come i miei studenti si appassionassero a questi temi, studiavo le domande che mi rivolgevano, moltissime domande. Una dinamica che mi ha portato sempre più in profondità. Ma posso aggiungere anche che se ho studiato il tema della morte e dell'immortalità nelle religioni è perché l'allora cardinale Ratzinger mi inviò il suo libro sull'aldilà per la fede cristiana, Escatologia. Morte e vita eterna. Pensai che sarebbe stato importante un simile studio su altre grandi religioni. E così attraverso alcune circostanze e il lavoro all'università ho continuato le mie ricerche e sono giunto ad una sintesi sul problema dell'uomo religioso e dell'antropologia religiosa. Che cosa significa il sacro, che cosa significa l'uomo religioso, che cosa significa antropologia religiosa? C'erano amplissimi studi di antropologia sociale e culturale e di antropologia strutturale, ma l'antropologia dell'homo religiosus non esisteva.
In questo lungo cammino chi ha trovato come maestri e compagni?
A parte alcuni dei miei professori universitari cito sempre due grandi personalità del XX secolo: il rumeno Mircea Eliade e il francese Georges Dumézil. Sono veramente i più grandi, i loro lavori sono veramente fondamentali. Poi nel corso della mia vita di studioso ho avuto innumerevoli occasioni di incontro e di scambio. Sono particolarmente legato all'Italia, dove ho partecipato a moltissimi congressi e sono diventato amico del compianto professor Bianchi. Qui ho anche trovato il mio editore italiano, la Jaca Book diretta da Sante Bagnoli: ha contribuito moltissimo alla diffusione dell'antropologia religiosa. Nel momento in cui andavo in pensione Bagnoli mi ha proposto la pubblicazione dell'opera omnia. Diceva che sarebbe stato un propellente per una nuova generazione di studiosi delle grandi religioni, e anche per questo abbiamo creato l'Archivio di Milano all'Università Cattolica del Sacro Cuore. Ho esitato un po', ma ora, a serie iniziata, devo riconoscere che qui da voi ha un grande riscontro. Inoltre sta cominciando l'edizione francese e tra poco quella spagnola.
In Italia ha conosciuto don Giussani e il Meeting di Rimini. Che ricordo ha del sacerdote fondatore di Comunione e liberazione?
Sentii parlare di don Giussani proprio al Meeting del 1982, il mio primo (con il prossimo saranno diciotto). Non conoscevo il movimento ma in quella settimana a Rimini cominciammo a diventare grandi amici. Don Giussani mi chiese di passare da lui a Gudo Gambaredo, poco fuori Milano, dove abitava. E così feci poi regolarmente, ogni volta che venivo in Italia. Abbiamo potuto parlare per ore. Una personalità eccezionale, del tutto semplice e accessibile, ma eccezionale. Lo era per la sua fede, per la comunicazione della fede, per la sua influenza sui giovani.
E di cosa parlavate così a lungo?
Dei grandi problemi della Chiesa e specialmente della proposta del movimento: mi interessava molto perché era il mio primo incontro con un movimento ben organizzato che affrontava la crisi nella Chiesa. È questo che mi aveva impressionato nel 1982, e cioè che Comunione e liberazione era la risposta alla rivoluzione del 1968. Questo l'avevo avvertito subito e successivamente ho letto che era proprio così. Ecco perché ero così entusiasta.
Come ha seguito la storia del Meeting in tutti questi anni? Come l'ha vissuta?
Il mio primo ricordo è di un raduno di giovani entusiasti, che mostravano la loro fede, e che davano la testimonianza della loro fede, e che erano una forza nuova per la Chiesa. All'epoca ho potuto portare alcuni studenti del movimento in Belgio e così oggi anche qui abbiamo Comunione e liberazione; anzi nei prossimi giorni avrò di nuovo il piacere di incontrare un gruppo di Bruxelles.
Qual è l'originalità del Meeting, qual è il contributo più interessante che la manifestazione riminese ha portato in questi oltre trent'anni di storia?
Penso che la formula, che rimane sempre la stessa ma cambia ogni anno, abbia qualcosa di originale: è una formula che fa alleanza tra fede e cultura e dimostra come fede cristiana e cultura cristiana insieme siano la forma di un mondo migliore.
Nel suo monumentale lavoro uno dei concetti fondamentali è quello della "ierofania": come lo definisce?
Bisogna cominciare cercando di comprendere il sacro. Il sacro è la trascendenza, una realtà che oltrepassa questo mondo ma che si rende presente in questo mondo. La parola ierofania deriva dal greco: il sacro, hieròs, si manifesta. Il sacro è percepito dall'uomo perché si manifesta. Quando l'uomo si trova davanti alla croce del Cristo o a una statua del Buddha o davanti a un evento religioso, l'uomo sente che lì c'è qualcosa che va oltre ciò che accade ordinariamente nel mondo.
La ierofania è quindi un avvenimento che eccede la normalità della vita?
Sì, è questo.
Dobbiamo intenderla come vera e propria manifestazione del divino?
Della trascendenza. Del divino nelle religioni che hanno la concezione di una divinità. Nel buddhismo, dove non c'è la concezione di una divinità, il sacro è nel cuore stesso del buddhismo, nel Nirvana.
L'antropologia religiosa, ciò cui ha dedicato la vita contribuendo a creare una disciplina di studi, esplora l'identità dell'homo religiosus. Ma l'uomo è cosciente di questa sua dimensione?
L'uomo diventa religioso per contatto con un evento che gli mostra la trascendenza. Ad esempio l'uomo primitivo di due milioni di anni fa che alza lo sguardo verso la volta celeste ritiene che ci sia qualcosa che accade lassù. La volta celeste diventa per lui un simbolo che gli mostra che esiste qualcosa al di là delle realtà di questo mondo. E quindi per il fatto di essere interpellato dal sole, dalla luna, dagli astri, quell'uomo diventa un homo religiosus.
L'uomo nasce religiosus? O lo è solo quando scopre di esserlo?
Ogni uomo è destinato a diventare religioso, ma molti non hanno trovato il cammino.
Con i monoteismi cambia qualcosa nell'uomo religioso?
Cambia molto perché il monoteismo è una rivelazione, non è solamente un contatto con qualcosa di superiore, con una ierofania. Il monoteismo è un contatto che rivela una realtà superiore. Un contatto tra Abramo e il suo Dio; un contatto tra gli apostoli e Gesù Cristo. Noi siamo in un altro mondo.
Ci può essere una fede senza religione? In altri termini, si può essere cristiani, musulmani o buddhisti senza essere “uomini religiosi”?
No. Il fatto stesso che un uomo sia buddhista, musulmano, ebreo, cristiano, è basato sul fatto che è uomo religioso. E quindi, di conseguenza, deve scoprirsi, deve definirsi come religiosus. Di qui l'importanza di questa antropologie fondamentale, sulla quale si innestano le altre antropologie. Ad esempio l'antropologia induista è completamente diversa dall'antropologia greca, ma nelle due l'antropologia religiosa è presente.
Pensa che nella cultura contemporanea la nozione di homo religiosus sia tranquillamente accettata?
È un problema con la cultura attuale. Per questo è molto importante fare dell'antropologia del sacro: occorre fornire all'uomo moderno un riferimento sicuro come quello di homo religiosus. Questi scopre il sacro mentre l'homo areligiosus perde il senso dell'esistenza. È la grande differenza.
Mentre per chiunque è ovvio accettare la nozione di homo faber, perché è così difficile accettare quella di homo religiosus?
Con l'homo faber, o anche come si usa dire oggi homo ergaster, dal greco uomo lavoratore, ci troviamo di fronte a un uomo che ha un'attività materiale, la quale ha un risultato visibile nell'oggetto che l'uomo ha lavorato. È facile riconoscerlo. L'homo habilis scoperto da poco tempo ha lavorato in Africa due milioni di anni fa e ha lasciato oggetti e utensili: questa è una evidenza. Per l'homo religiosus la ierofania non è un'evidenza così chiara. La ierofania richiede da parte dell'uomo una riflessione e un'analisi per scoprire che il sacro esiste. Insomma c'è una scoperta da fare che non è immediata come la scoperta materiale dell'uomo lavoratore. È più difficile scoprire la realtà del sacro, c'è un gioco della coscienza che deve realizzarsi affinché l'uomo compia la scoperta.
In fondo le cose di cui lei si è occupato sono le cose più importanti della vita: l'aldilà, il divino, il senso delle cose... Ma torno a quel che le chiedevo: oggi è ovvio parlare dell'homo faber ma non dell'homo religiosus.
Esatto, ma è per questo che bisogna parlarne, proprio perché è più difficile. Le assicuro che quando accade le persone si accendono di interesse. Qualche settimana fa mi era stato chiesto di tenere una conferenza nel mio villaggio natale, qui in Belgio. Mi sono chiesto prima di tutto su che cosa avrei potuto tenere la conferenza: avrei parlato a gente semplice e a qualcuno colto. Ho dato questo titolo: «La crescita della coscienza religiosa dall'homo habilis all'uomo del Neolitico». Sono tutti rimasti a bocca aperta e con gli occhi sbarrati, mi dicevano: queste cose sono nuove!
Perché per l'uomo di oggi è così difficile riconoscere la propria natura religiosa? Manca qualcosa nel suo cuore o è il divino che non si manifesta?
L'uomo di oggi è un uomo smarrito. Anzitutto c'è una assenza di riflessione, è troppo impegnato in tantissime cose di tutt'altro genere. È necessario riscuotere l'uomo dalla distrazione, riportarlo al punto centrale, alle idee fondamentali. Il sacro, l'aldilà, la creazione del mondo. Tutto questo è la nuova evangelizzazione e oggi bisogna formare una generazione di giovani, come ho visto nel movimento di Comunione e liberazione, che vada attraverso il mondo con questo messaggio riguardante il fondamento umano. È il primo passo nella nuova evangelizzazione: risvegliare nell'uomo l'uomo religioso, la trascendenza, la nozione del sacro. E ovviamente per il cristiano si tratta di risvegliare il cristiano, risvegliare in lui il senso del Battesimo, il senso di Gesù Cristo e la presenza di Cristo in mezzo a noi.
Spesso la religione viene avvicinata al fenomeno della violenza. L'homo religiosus è pacifico o violento? La scoperta di una realtà così decisiva nella sua vita lo spinge all'aggressività o all'apertura, all'imposizione o all'incontro?
L'homo religiosus è solitamente un uomo pacifico, un uomo che vive nella pace. Nella preistoria abbiamo a che fare con l'evidenza della dimensione religiosa dell'uomo e dobbiamo riconoscere che apparentemente non c'è quella violenza che vediamo oggi. Non abbiamo ancora sufficienti dati per saperlo con certezza, ma la preistoria non ci mostra tracce di violenza religiosa. Rispetto all'ambiente circostante l'uomo religioso cerca il contatto con gli altri, sia con coloro che nutrono la stessa sua fede sia con coloro che hanno una fede diversa dalla sua. Per noi cristiani voglio citare a questo proposito uno tra i tanti esempi che si potrebbero ricordare, l'evento straordinario che con la Nostra aetate ha creato il dialogo tra le religioni. Quel testo conduce il cristiano verso l'uomo religioso non cristiano per dialogare con lui e soprattutto al fine di stabilire la pace nel mondo. La portata di questo evento la si vede con gli incontri di Assisi.
Che cos'è la morte per l'homo religiosus?
Sto ultimando un libro in cui esamino la concezione della morte e dell'aldilà in venti religioni costituite. Ad esempio per gli egiziani l'aldilà è meraviglioso. Durante la vita costruiscono le tombe e si preparano al passaggio. Per loro ci sono due modi di vivere la vita: uno è resuscitare tutti i giorni e seguire il sole oppure essere nel campo di Osiris e stare al suo cospetto. Qualcosa di simile c'è negli etruschi. Esplorando i loro monumenti vediamo come avessero la convinzione che nell'altro mondo la vita si sarebbe in qualche modo "replicata" più felice e rallentata. In Mesopotamia invece prevale una idea pessimista, figlia delle condizioni di vita nell'aldiquà: i testi del quinto e quarto secolo avanti l'era cristiana ci mostrano uomini che si considerano condannati dagli dei a scavare canali e lavorare sempre perché nei canali ci sia acqua… È interessante notare come in tutte le venti religioni ci sia un pensiero della morte e dell'aldilà. E come questo dipenda dalla loro concezione della vita sulla terra.
(©L'Osservatore Romano 4 agosto 2012)
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