Un uomo solo al comando
I due documenti più importanti sono custoditi nell'Archivio Segreto Vaticano
Pubblichiamo una sintesi della conferenza tenuta a L'Aquila, lunedì 27 agosto, dal vescovo prefetto dell'Archivio Segreto Vaticano in occasione delle manifestazioni per la festa della Perdonanza Celestiniana.
di Sergio Pagano
«Donna fortunata e degna madre di tanto figlio»: così si rivolgeva all'umile Maria, madre di Pietro del Morrone, l'autore della cosiddetta Vita c, la fonte più attendibile sulle gesta di Celestino v, scritta da un suo confratello poco dopo la morte del Papa. Si tratta di un tòpos, che vuole sempre esaltate le madri dei grandi personaggi della storia, anche quando -- ma non è caso della povera contadina Maria, sposa di Angelerio -- erano lontane dal meritare tali elogi.
Pure nel caso di Pietro del Morrone quel cliché letterario ben si prestava a raffigurare la realtà, questa volta, perché quel figlio di Maria, undicesimo di dodici fratelli, era destinato a inverare nella sua vita ciò che un'altra madre, anch'essa di nome Maria, la madre santissima di Cristo, esclamò nel suo immortale Magnificat, dopo l'annunciazione dell'angelo: deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles (Luca, 1, 51-53).
La vita di Pietro del Morrone, poi Papa Celestino v per neppure sei mesi pieni, vissuta nella più nascosta umiltà e nella ricerca di Dio, venne rovesciata dalla Provvidenza nel luglio del 1294, quando pose sul trono più alto che allora avesse l'Occidente, quello pontificio, il riluttante eremita del monte Morrone, deponendo -- almeno per un breve periodo, che avrebbe potuto essere profetico, mentre purtroppo fu soltanto politico -- in certo modo dai loro scranni i potenti cardinali, ricchi di blasonate insegne, di castelli, terre e gioielli, dai nomi altisonanti quali Malabranca, Orsini, Colonna, Caetani, d'Acquasparta, Boccamazza e via dicendo, i quali dal conflittuale conclave di Perugia uscirono sconfitti nei loro giochi di potenza e di umano prestigio.
Un grande studioso di Celestino v, Peter Herde, ha scritto che la scelta di Pietro del Morrone da parte dei cardinali quale nuovo Pontefice fu certamente «una decisione insensata, perché a Pietro mancavano tutti i presupposti per reggere la Chiesa con successo: la conoscenza del complicato apparato curiale, del diritto canonico, dei problemi spirituali e politici: inoltre era troppo vecchio (aveva circa 85 anni) per potersi adeguare ai nuovi compiti». Persino i pochi concistori che celebrò Celestino furono tenuti in lingua volgare, perché egli non conosceva bene il latino, o almeno lo stile della curia.
Fu dunque Celestino un Papa angelico, profetico, provvidenziale, spirituale, potenziale germe di rigenerazione del pontificato romano, oppure un uomo anziano e inesperto, facile da manovrare, ingenuo nelle sue scelte, eletto per una breve transizione in vista di futuri accordi fra i potentati cardinalizi e la politica dei regni?
Bisogna distinguere il giudizio dei contemporanei da quello degli storici vicini a noi. Questi ultimi possono giudicare di Celestino v da lontano, con una certa dovizia di documenti coevi a Pietro del Morrone, ma anche con la conoscenza della storia successiva a lui, con lo sguardo allargato, ad esempio, al pontificato di Bonifacio VIII, suo successore, e quindi ai Papi della fine del medioevo e ai loro successori. È quindi naturale che il giudizio degli storici restringa l'eremita del Morrone nell'angusto spazio monastico; quello che gli fu più congeniale, riservando un giudizio piuttosto negativo sul suo breve pontificato, fino alla grande rinuncia, quantunque anche in questo ambito non manchino di rilevare alcuni aspetti positivi. Nessuno storico poi ha nulla da censurare, ovviamente, sulla assoluta moralità di Papa Celestino, sulla sua estraneità ai disegni di potere o di mondano prestigio.
I contemporanei di Papa Celestino, invece, lo giudicarono (né era possibile altrimenti) con lo sguardo del loro tempo, che vedeva i consueti sconvolgimenti politici, guerre, carestie, malattie e povertà, quando più e quando meno; e unito a esse, quasi per contrasto, un crescente anelito religioso che andava all'essenzialità del vivere e alla più piena fiducia in Dio. Non sarà un caso se proprio il secolo che in pratica si chiudeva con il pontificato di Celestino v aveva visto, al suo sorgere, il grande spirito riformatore di Francesco d'Assisi.
Quando il dimesso eremita del Morrone, carico di digiuni e di anni di vita macerata nella preghiera e nel silenzio, scarno persino in volto, rivestiva a L'Aquila «il gran manto», il 29 agosto del 1294, e diveniva Pontefice della Chiesa universale, su di lui si cominciarono a concentrare le attenzioni di molti: alcuni (troppi) mossi da interessi mondani, politici o di carriera, altri decisi a servirlo, speranzosi però anch'essi di future promozioni; pochi, troppo pochi, attratti non dal fasto del papato, ma dall'umiltà e dall'integrità della persona dell'eremita, incoronato Pontefice. Poi vi fu l'attenzione dei cronisti, dei biografi, dei diaristi, insomma -- per così dire -- degli storici del tempo.
E veniamo ai due documenti riguardanti il conclave da cui uscì eletto il 5 luglio 1294 Celestino v, entrambi conservati nell'Archivio Segreto Vaticano. Si tratta in un caso di quello che chiameremo «decreto» di elezione, redatto da un notaio apostolico sotto la sorveglianza del cardinale Latino Malabranca, attestante l'avvenuta elezione a Pontefice di Pietro del Morrone. Nel testo, datato 5 luglio 1294, gli undici cardinali riuniti in conclave, affermano che dopo diverse discussioni, essendo corso il nome dell'eremita Pietro del Morrone, uomo di santa vita, come d'improvviso e certamente in modo inatteso, unanimemente acconsentirono alla sua elezione a Sommo Pontefice, non senza effusione di lacrime per la gioia della scelta di un uomo di santa vita, come recita il documento stesso. I cardinali sottoscrissero il decreto con elementi grafici di proprio pugno e apposero i loro sigilli in cera rossa.
Il secondo documento del conclave è la lettera che i cardinali scrissero l'11 luglio 1294, sei giorni dopo l'elezione canonica del nuovo Papa, non più al monaco Pietro del Morrone, ma -- come recita l'inscriptio -- Santissimo patri et domino reverendo, domino fratri Petro de Murrone, Ordinis Sancti Benedicti, divina providentia in Romanum et summum electo Pontificem. I cardinali comunicavano a Pietro la sua elezione a Pontefice e lo pregavano di voler accettare il manto pontificale e il suo peso, a beneficio della Chiesa Romana, da troppo tempo priva del suo sommo pastore.
Sia il decreto di elezione, sia la lettera a Pietro, scritti ovviamente su pergamena, vennero arrotolati, secondo la consuetudine, e chiusi entro due tubi di latta per essere più facilmente trasportati. La carovana si mosse da Perugia alla volta di Sulmona probabilmente il 12 luglio e impiegò sei giorni per arrivare a destinazione, percorrendo la via Salaria e la via Claudia Nuova fino alla via Valeria. Giunti a Sulmona il 18 luglio, trovarono che Pietro non risiedeva al monastero di Santo Spirito, ma nella cella di Sant'Onofrio, a metà circa del monte Morrone.
Gli inviati salirono, sotto il torrido sole di luglio, fino al romitorio di Sant'Onofrio, in fila indiana, perché il sentiero era stretto. Giunti al romitorio -- racconta Iacopo Stefaneschi, testimone oculare -- videro tramite una finestrella il santo vecchio eremita, già al corrente, ma in maniera confusa, della sua elezione a Pontefice, pallido in volto, la barba lunga e incolta, il corpo logorato dai digiuni, gli occhi gonfi di lacrime, con vesti logore e in una cella assai modesta. Quel che accadde in quel giorno, 19 luglio, fra il nuovo Papa e i prelati è destinato forse a rimanere per sempre sconosciuto. Stefaneschi ci ha fornito una versione dell'accaduto forse un poco agiografica e forse anche edulcorata, ma non lontana dal vero, almeno verosimile.
Sembra che Bérard de Got abbia mostrato a Pietro il decreto della sua elezione a Pontefice e la lettera di supplica dei cardinali elettori per convincerlo ad accettare l'elezione; è ben possibile che l'arcivescovo di Lione ponesse davanti agli occhi di Pietro le condizioni della Chiesa e della Santa Sede, lacerata da una troppo lunga sede vacante, bisognosa di una guida. Mentre si spianavano le due pergamene davanti all'umile vecchio, questi veniva ammonito -- come dirà egli stesso all'atto della rinuncia -- ad accogliere senz'altro l'elezione, perché altrimenti avrebbe compiuto un peccato mortale, il che non era vero, ma era argomento potente per convincere lo scrupoloso monaco e vincerne le scontate resistenze.
Sembra che di fronte al panorama ecclesiale che gli veniva dipinto dagli inviati del conclave, Pietro esclamasse: «Chi sono io per farmi carico di un così grande peso, di così tanto potere? Io non sono in grado di salvare me stesso, come potrò salvare il mondo intero?». Il monaco eremita era ben cosciente, dunque, del peso che comportava il sommo pontificato. Ma alla fine accettò e discese il 20 luglio a Sulmona e qui giunto, probabilmente il 21 o il 22, fece redigere la sua risposta alla lettera indirizzatagli dai cardinali elettori.
I due notai al seguito dei presuli custodivano intanto i documenti di elezione e questi finirono poi nell'archivio del monastero di Santo Spirito del Morrone, forse per volontà dello stesso Celestino v. I due documenti vennero richiesti da Papa Clemente VIII alla fine del Cinquecento e furono quindi trasportati a Roma; è assai probabile che la richiesta pervenisse al Papa dal celebre storico della Chiesa Cesare Baronio, al quale infatti i documenti furono mostrati. Clemente VIII e alcuni cardinali, che videro i due documenti, ne compresero il valore. Le pergamene furono riposte nell'archivio di Castel Sant'Angelo nel 1602 per ordine del Papa; da qui passarono, con il resto dell'archivio di Castello, all'Archivio Segreto Vaticano nel 1798.
Oggi uno di essi, la lettera indirizzata dai cardinali elettori all'eletto Celestino v -- che il santo Pontefice scrutò con i suoi occhi forse pieni di terrore per ciò che in essa vi andava leggendo -- è giunta a L'Aquila, città della sua incoronazione papale, nel pieno della festa della Perdonanza da lui voluta.
La figura del venerato Pontefice, malgrado siano passati tanti secoli, è ben lungi dal trovare concordi tutti gli storici; in un ampio articolo Felice Accrocca mostra come la serie degli ultimi convegni aquilani e ferentinati, alcuni saggi degli ultimi decenni, nonché la discussione delle chiavi di lettura di celebri monografie celestiniane (compresi gli scritti di Peter Herde) possano essere rivisti sullo sfondo della crisi che attanagliò la Chiesa e la curia romana alla fine del Duecento, in mezzo alle tensioni spirituali che si agitavano nel mondo cristiano.
Insomma la figura del Papa eremita attrae sempre l'attenzione, gli studiosi che la indagano con il passare del tempo aumentano, e di pari passo aumenta l'esigenza di avere a disposizione un corpus sicuro degli scritti di Celestino e su Celestino.
Quest'opera, che da tempo si auspica, dovrebbe raccogliere in edizione critica e perciò storicamente affidabile, non solo tutte le “vite”, per dir così, del Papa del Morrone, ma anche i suoi atti da Pontefice e altre reliquie documentarie monastiche e non. Con tale base documentaria solida, gli storici sarebbero più rinfrancati e le loro indagini su Celestino diverrebbero maggiormente fondate.
Tale vagheggiata opera potrebbe vedere la luce con la rinascita della città de L'Aquila (così ci auguriamo); e poiché per compierla, con lo scrupolo scientifico delle ricerche storiche serie, ci vorranno anni, ma non decenni, noi vorremmo auspicare che l'una e l'altra -- corpus celestiniano e rinascita della città colpita dall'ultimo sisma -- vedano la luce nei tempi più brevi possibili, cosicché la meritata e duratura memoria di Papa Celestino torni a risplendere non solo a Collemaggio, dove riposano le sue spoglie, ma nella città, ch'egli vide già bella nel suo primo ingresso da neo-eletto Pontefice.
(©L'Osservatore Romano 29 agosto 2012)
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