L'itinerario penitenziale indicato dal vescovo Girotti, reggente della Penitenzieria Apostolica
Se la crisi ci fa più ricchi
di Nicola Gori
La società di oggi vive in uno stato permanente di «penitenza». Basti pensare alle tante famiglie in difficoltà, ai giovani senza lavoro, ai bambini abbandonati. Una situazione, resa sempre più drammatica dalla perdurante crisi economica, che il vescovo Gianfranco Girotti, reggente della Penitenzieria Apostolica, invita a trasformare in opportunità spirituale per questa Quaresima: piuttosto che pensare a ulteriori mortificazioni -- afferma in questa intervista al nostro giornale -- è opportuno recuperare uno sguardo di fede più intenso sulla realtà, per «prendere coscienza della situazione e accettarla come occasione di una vita materialmente più sobria e spiritualmente più ricca».
Il Papa nell'Angelus di domenica 26 febbraio ha spiegato che il «deserto» citato dall'evangelista Marco ha diversi significati. Cosa è il «deserto» per gli uomini del nostro tempo?
Una caratteristica del nostro tempo è la rapidità. Gli eventi accadono e scompaiono con grande velocità, senza la possibilità di apprezzarne il contenuto, di individuarne le radici e tentare di intervenire in modo efficace. Si corre pensando di guadagnar tempo. Invece lo consumiamo senza valorizzarlo e apprezzarlo. Il mondo è come una bicicletta, sta in piedi se corre. È questo il nostro deserto: l'incapacità di meditare, di rallentare la corsa e prender fiato. Per colui che corre anche un bel prato è come un deserto, perché non è in grado di ammirarlo.
Dal «deserto» delle tentazioni al «giardino» della risurrezione. Quale itinerario si prospetta in questi quaranta giorni?
L'itinerario, propiziato anche dalla crisi economica che segna le sorti di tanti Paesi, prevede una maggiore sobrietà nell'uso dei beni materiali, da bilanciare con una ricchezza di iniziative di carattere spirituale -- meditazione, preghiera, letture filosofiche, teologiche, mistiche -- con cui interpretare più in profondità la realtà che ci circonda e offrire uno stile di vita più interiormente raccolto, e insieme più fruttuoso a favore di quanti rientrano nel raggio della nostra attività professionale. Il principio al quale vorrei che ispirassimo la condotta è di matrice propriamente francescana: solo alimentando l'anima si può contenere la fame del corpo.
Nel messaggio per la Quaresima il Papa ha invitato quest'anno a riflettere in particolare sulla carità. Come la definirebbe?
È l'attenzione per l'altro. Un'attenzione di partecipazione ai problemi e di aiuto alla loro soluzione. I problemi oggi hanno molte facce. Occorre esserne anzitutto consapevoli e dare quanto si può in modo intelligente. La carità è partecipazione dell'amore di Dio. Come condividerlo? Elevando anzitutto lo stile della nostra vita attraverso una convinta comunione con Dio. Proprio perché viene da Dio, la carità deve risultare «divina» e cioè efficace, rispondente ai bisogni reali, senza arroganza, in spirito di servizio.
Al mondo manca la fraternità, scriveva Paolo VI nel 1967. È cambiato qualcosa da allora?
La fraternità tarda a rivelarsi nel suo effettivo spessore, perché nei momenti di difficoltà economica o di turbolenza sociale, ognuno ridiventa diffidente e si chiude in sé pensando ai problemi a cui deve far fronte. Oggi viviamo tutti tendenzialmente chiusi in noi stessi, quale forma di autodifesa. Ora, in quest'epoca di crescente globalizzazione, la relazione verso l'altro è decisiva, perché l'altro o è nostro fratello o presto si rivela nostro nemico. Non contano il territorio, il costume, la lingua, la religione. La fraternità trascende queste forme, attraverso le quali ognuno di noi esprime la sua umanità. Ed è questa la ragione per cui si fatica a riconoscersi fratelli. Questo presuppone uno sguardo profondo e una fede viva, in grado di andare oltre quei motivi che nella convivenza sociale si impongono come distintivi e che noi spesso riteniamo prevalenti. È necessario alimentare con più radicalità la fede nella comune fraternità in Cristo, non dimenticando che il bene che si fa nel mondo viene dal fatto che si va oltre il calcolo, oltre la misura, oltre la pura razionalità. È ovvio che questo è possibile solo se viviamo entro lo sguardo di Dio.
La Quaresima si identifica con la penitenza. Non le sembra che l'odierna società sia sorda a questo invito?
La società non è sorda a quest'invito. La società vive nella penitenza. Il richiamo è a tante famiglie in difficoltà, a tanti giovani che non riescono a dare una fisionomia al loro futuro a causa della strutturale incertezza sociale ed economica. Il pensiero va soprattutto a tanti bambini abbandonati, senza il necessario sostegno, sia materiale sia affettivo. Non è necessario pensare ad altre forme di mortificazione. È necessario uno sguardo di fede più profondo. La vita che stiamo vivendo è una forma di grande penitenza perché comporta la necessità di rinunciare a molti sogni, di mortificare molti desideri, di ridurre molti bisogni. La penitenza che forse va sollecitata consiste nel prendere coscienza della situazione e nell'accettarla come occasione di una vita materialmente più sobria e spiritualmente più ricca. Alimentare una vita interiore più intensa, alimentata da una forma quotidiana di dialogo con Dio nella preghiera, è uno dei propositi che dovrebbe accompagnare questa Quaresima, quale effettiva preparazione alla Risurrezione pasquale.
Può indicare alcune forme di penitenza adatte all'uomo contemporaneo?
Le forme specifiche di penitenza ognuno deve trovarle per proprio conto, in rapporto alla vita che conduce e agli impegni quotidiani. Una fede viva è come una sorgente d'acqua che prima o poi viene in superficie, creandosi un varco, rendendosi visibile. Le forme di penitenza sono come i fiori di un prato, nel senso che ne manifestano la fecondità. E così, per esempio, rinunciare a qualcosa -- in passato ritenuto importante -- o anche trattenersi dal dire cose che potrebbero turbare la persona che ci sta accanto. Oppure, guardando a chi sta in grave difficoltà, offrire il proprio sostegno, morale o materiale. La vita ci sorprende con le sue novità, oltre che per i suoi problemi. L'importante è avere uno sguardo vigile e il cuore aperto.
Tra pochi giorni si aprirà il XXIII corso sul foro interno promosso come ogni anno dalla Penitenzieria. Per i preti ci saranno indicazioni particolari sul modo di comportarsi con alcune categorie di penitenti?
Al sacerdote non raramente capita -- non solo nel foro interno sacramentale ma talvolta anche in quello non sacramentale -- di dover interessarsi di situazioni che presentano aspetti di particolare delicatezza. Dinanzi a tali casi ogni confessore dovrebbe sempre tener presente che una pastorale che si ispira al Vangelo non può e non deve mai fare disperare nessuno: «Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi e io vi ristorerò». E con che cosa ristorare queste persone se non con l'amore di Cristo, un amore «mite e umile», un «giogo dolce e un carico leggero»? Il sacerdote, il confessore in particolare, non deve dimenticare che Cristo non è venuto per condannare ma per salvare, per cui deve dimostrare verso tutti «attenzione e rispetto». La durezza del confessore talvolta può essere fatale per molti. Occorre sempre offrire loro tutti i mezzi disponibili per aiutarli a emendarsi. Occorre sempre usare carità e mai parole dure.
Eppure sembra che nella nostra società il sacramento della penitenza sia caduto quasi in disuso. Quali cause individua di questo fenomeno?
Indubbiamente in un'epoca di profondi cambiamenti non è difficile registrare mutamenti che hanno profondamente inciso anche sulla pratica del sacramento della riconciliazione. Non è difficile constatare che questo sacramento ha subìto un appannamento nella pratica. Un primo aspetto che balza dinanzi è certamente il modo nuovo di concepire il peccato; è addirittura l'affievolirsi del senso del peccato. La indebolita coscienza del peccato, se non genera spesso una più marcata disaffezione al sacramento della penitenza, rischia di suggerire al penitente più l'esternazione d'animo che non la denuncia del proprio peccato. Vi è, purtroppo, una perdita del senso del «peccato morale», della trasgressione di una legge morale. Lo affermava già il grande Pontefice Pio XII, il quale dichiarò: «Forse il più grande peccato nel mondo di oggi è proprio quello di aver perso il senso del peccato».
(©L'Osservatore Romano 3 marzo 2012)
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