venerdì 2 marzo 2012

La Chiesa nelle crisi. Considerazioni di Giuseppe Rusconi (Tempi)

Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:

ROSSOPORPORA APPARSO SUL SETTIMANALE ‘TEMPI’ 9/2012 DEL 7 MARZO 2012

LA CHIESA NELLE CRISI

DI GIUSEPPE RUSCONI

La rivolta in Siria che minaccia di concludersi molto male per i cristiani. Il Portogallo costretto a sacrifici greci da un’Europa fin troppo cinica. Le galere del regime comunista in compagnia di Havel.
Chi conosce “Rossoporpora” sa che la rubrica rifugge da gossip e intrighi, che nella Chiesa (non solo a livello vaticano) sono una costante storica. Certo in tempi come i nostri (già caratterizzati dall’emergere di scandali gravissimi) anche solo un briciolo di saggezza sconsiglierebbe la pubblica deambulazione fuori le Mura leonine di documenti di spessore diverso: deambulano testi sostanzialmente veritieri, altri intrisi di menzogna, altri ancora frutto di elucubrazioni a dir poco audaci. Tutto questo gran deambulare danneggia tutto e tutti pur se in misura diversa, produce tonnellate di chiacchiere accompagnate dalle più ardite dietrologie: soprattutto turba l’animo – per collaudato che sia - di tanti (ma tanti) cattolici, ‘semplici’ o perfino ‘adulti’.
Anche per Benedetto XVI non sono giorni facili.
Nella lectio divina tenuta al Seminario maggiore romano il 15 febbraio, ha evidenziato che “oggi si parla molto della Chiesa di Roma, di tante cose, ma speriamo che si parli anche della nostra fede”.
Tre giorni dopo, nell’omelia del Concistoro – certo riferendosi anche all’attualità disdicevole – lo stesso papa Ratzinger ha ricordato che “non è facile entrare nella logica del Vangelo e lasciare quella del potere e della gloria. (…) Il Figlio dell’uomo non è venuto a farsi servire, ma per servire e dare la vita in riscatto di molti”. Sono parole queste che “illuminano con singolare intensità l’odierno Concistoro pubblico”; esse “risuonano nel profondo dell’anima e rappresentano un invito e un richiamo, una consegna e un incoraggiamento” specialmente (ma non soltanto) per i 22 nuovi porporati.
Dopo il doveroso ‘preambolo’ occupiamoci di politica internazionale. L’esperienza in tale ambito non manca al cardinale Renato Raffaele Martino, per 16 anni Osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a New York e per altri 7 presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Il porporato salernitano ha sempre seguito con attenzione gli sviluppi di quella che l’Occidente ha etichettato come “primavera araba” e che invece ad esempio il direttore della TV di Hezbollah libanese chiama “risveglio islamico”. Oggi è in particolare la Siria a occupare il proscenio. Il cardinale Martino è “preoccupato” per il fatto che i cristiani di Siria stiano sostanzialmente dalla parte di Assad: “Hanno sempre avuto con lui e già con suo padre una buona libertà di movimento e temono che, se vincessero i ribelli, il potere sarebbe preso dai fondamentalisti islamici”. Per il nostro interlocutore “tale timore non è però reale”. Infatti “noi osserviamo dal di fuori e possiamo avere davanti agli occhi il quadro completo della situazione. Perciò io non credo che ci sia la possibilità di un avvento di musulmani fanatici”. Tuttavia i cristiani libanesi sono in apprensione, a partire dal nuovo patriarca maronita Béchara Raï ... “Ciò che avviene in Siria ha sempre dei riflessi immediati in Libano. Comprendo i timori dei cristiani libanesi, ma dal di fuori si vedono le cose un po’ diversamente e io resto assai ottimista”. Il cardinale Martino è però deluso per il mancato intervento internazionale, “che in altre situazioni analoghe c’è stato”. Secondo lui lo “stare sostanzialmente a guardare” da parte della comunità internazionale “va ricondotto al rischio di un intervento dell’Iran, alleato di Assad. Perfino Israele non si è mossa”. Certo va riconosciuto, conclude il settantanovenne porporato, che “la prospettiva di ritrovarsi con un ‘secondo Iraq’ sarebbe disastrosa”. In ogni caso “il veto di Russia e Cina rende al momento l’ipotesi di intervento solo teorica”.
L’odierna situazione economica europea vede la Grecia costretta a una inaudita macelleria sociale per volontà di una trojka formata dalla Commissione dell’UE, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale, che l’hanno per il momento ‘salvata’ dal fallimento, espropriandola de facto nel contempo della sovranità nazionale. Se però ugualmente la Grecia non dovesse farcela, si legge che dovrebbe tremare in primo luogo il Portogallo (cui spesso è associata anche l’Irlanda). E’ parso allora utile ascoltare il parere di un cardinale portoghese: José Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei Santi, a Roma da 58 anni (tant’è vero che è un accanito tifoso della Lazio), ma pur sempre in stretti rapporti con il Paese d’origine. L’ottantenne presule lusitano evidenzia subito che il Portogallo non può essere paragonato alla Grecia: “I portoghesi sono molto pazienti, realisti, un po’ come i romani, gli italiani in genere. Non come i greci, non come gli spagnoli, che si infiammano più facilmente”. Bisogna riconoscere, continua, che in Portogallo “le dure misure di austerità stanno funzionando; il primo ministro portoghese Pedro Passos Coelho è stato straordinariamente coraggioso e sta facendo più o meno ciò che ha intrapreso Mario Monti in Italia”. A differenza poi di quel che accade con la Grecia, “il Portogallo può contare fin qui sull’indispensabile appoggio di Angela Merkel”. Del resto il popolo portoghese “non scende in piazza come quello greco”, perché “è pienamente consapevole della durezza, ma anche della necessità della cura”.
A Lisbona insomma prevale il realismo. Là come altrove in Europa occidentale “la gente sa che ha vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità: si guadagnavano 40 euro e si viveva a livello di 80”. Tra i sacrifici richiesti ce n’è uno che può apparire minore, ma che dà adito a discussioni: il taglio di quattro giorni festivi, due civili e due religiosi. Per l’individuazione di queste ultime, osserva il cardinale Saraiva Martins, le trattative sono in corso: il ministro degli esteri Paulo Portas ha colto l’occasione del Concistoro per incontrare in Segreteria di Stato l’arcivescovo Dominique Mamberti. Non si tratta certo di sopprimere la festività dell’Immacolata, “una vera festa nazionale anche civile per la patrona del Portogallo”, ma di pensare allo “spostamento alla domenica del Corpus Domini e dell’Assunzione”.
Per il porporato portoghese l’Unione “ha dimenticato i valori umani fondamentali, che sono anche cristiani” e non si comporta “come una vera comunità, perché due Stati sovrastano gli altri, considerati inferiori”.
E’ così che “la Grecia è stata umiliata… un trattamento che non sarebbe possibile con il Portogallo”. La crisi, conclude l’ottantenne porporato, ha comunque un importante risvolto positivo: “Ci richiama al realismo, a una vita basata più sull’essere che sull’avere, sull’autenticità più che sui lustrini dell’apparenza”.
Torniamo al Concistoro del 18 febbraio. Spulciando tra i “cenni biografici” dei neo-porporati - una ‘fatica’ sostenuta dai giornalisti de L’Osservatore Romano - riscontriamo come tra i ventidue prescelti non manchi chi, in veste di nunzio apostolico, ha servito la Chiesa in Paesi e in tempi delicati. Incominciamo dal pugliese Fernando Filoni, da quasi un anno prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli: ha operato in Sri Lanka, Iran (1983-85), Brasile, Filippine con residenza ad Hong Kong (osservatorio ideale per seguire l’evoluzione cinese), Giordania e Iraq (2001-06, ultimi due anni di Saddam Hussein, guerra, i primi tre anni dopo lo scoppio del conflitto), di nuovo un anno nelle Filippine, prima di essere nominato sostituto (per quattro anni) della Segreteria di Stato. Per l’odierno penitenziere maggiore, il portoghese Manuel Monteiro de Castro, sicuramente interessanti i periodi trascorsi con la delegazione apostolica in Vietnam e Cambogia (1972-75), poi come nunzio in El Salvador e Honduras (1990-97) e dal 2001 al 2007 (primi tre anni zapaterici) a Madrid. Il neo-arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore, lo spagnolo Santos Abril y Castelló, ha alle spalle una delicata, doppia esperienza balcanica: dal 1996 al 2000 è stato nunzio a Belgrado (crisi della guerra del Kosovo), dal 2003 al 2011 nunzio in Slovenia, Bosnia-Erzegovina , poi anche in Macedonia. In Africa dal 1989 al 1997, il marchigiano Antonio Maria Vegliò - odierno presidente del Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti - è stato nunzio in Libano, Kuwait e delegato apostolico nella Penisola Arabica dal 1997 al 2001, anno in cui è stato nominato significativamente segretario della Congregazione per le Chiese orientali. Per il neo-governatore dello Stato della Città del Vaticano, il piemontese Giuseppe Bertello, un’esperienza particolare: nel 1987 ha presieduto la delegazione di osservatori della Santa Sede alla conferenza dei ministri degli esteri dei Paesi non allineati a Pyongyang, primo sacerdote cattolico a visitare i cristiani nord-coreani dopo la guerra del 1950-armistizio del 1953. Altro periodo intenso quello della nunziatura in Ruanda (1991-95), durante la guerra civile tra tutsi e hutu. Dal 2007 al 2011 è stato nunzio in un Paese tutt’altro che facile come l’Italia e nella Repubblica di San Marino.
In Vietnam come cappellano (1971-72), il neo-cardinale Edwin Frederick O’ Brien - oggi Gran Maestro dell’Ordine del Santo Sepolcro - da ordinario militare statunitense (1997-2005) ha visitato anche i soldati americani impegnati nelle “missioni di pace” all’estero (vedi Afghanistan). Nella biografia del cardinale indiano George Alencherry si legge tra l’altro: “Non nasconde il problema della condizione di minoranza e quello del confronto con chi in India fomenta il fondamentalismo, anche se in Kerala la situazione è più tranquilla che in altre parti del Paese”. Un’infanzia travagliata a causa dell’invasione giapponese ha avuto il cinese John Tong Hon, oggi vescovo di Hong Kong e dunque successore del cardinale Joseph Zen Ze-kiun. A due anni la sua famiglia dovette trasferirsi a Macao, poi fino a sei anni fu mandato dalla nonna paterna in un villaggio della provincia di Guangdong. Solo nel 1945 la famiglia potè ritrovarsi a Canton. Morì presto il padre, la madre si convertì al cattolicesimo, la famiglia riuscì infine a raggiungere Hong Kong.
Dall’est europeo ecco il greco-cattolico rumeno Lucian Muresan, perseguitato dalla Securitate, la polizia segreta del regime, operaio per quasi dieci anni in una cava di pietra. Ma c’è un altro neo-cardinale che ha subito le vessazioni del paradiso comunista, l’arcivescovo di Praga Dominik Duka, successore del cardinale (già costretto a fare il lavavetri) Miloslav Vlk. Il sessantanovenne benedettino ha dovuto lavorare per alcuni anni come tornitore, per altri come disegnatore in una fabbrica automobilistica e per quindici mesi (1981-82) è stato internato nel carcere di Pilsen-Bory per “attività religiose, organizzazione dello studio dei chierici domenicani, pubblicazione di stampa clandestina, collaborazione con l’estero”. L’abbiamo incontrato e felicitato nell’Aula Nervi nell’ambito delle “visite di cortesia” ai nuovi cardinali: si è commosso quando gli abbiamo chiesto della sua amicizia con il simbolo della “rivoluzione di velluto” e della dissidenza, Václav Havel, eletto nel 1989 presidente della Repubblica e morto poco prima di Natale. “Per me era un grande amico. Con lui in prigione ho giocato a scacchi, una sua brillante idea perché io potessi intanto approfittarne per leggere il testo della santa messa”. Continua il cardinale Duka: “Václav Havel secondo me non era un agnostico, ma aveva sempre nel cuore una grande nostalgia di verità e amore. Me lo ricordo quando pianse entrando nella cattedrale di Praga in occasione del Te Deum dopo l’elezione alla presidenza della Repubblica. E ancora nello scorso novembre, per la festa di Agnese di Boemia, principessa e badessa, ha voluto inviarci un biglietto in cui ringraziava la santa per aver steso la sua mano sul Paese. E la pregava di continuare a farlo, dato che forse ne avremmo avuto ancora bisogno”.
Tra i “cenni biografici” dei neo-cardinali ci si permetterà di segnalarne in conclusione ancora un paio. Del sessantacinquenne Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, veniamo a sapere il titolo della tesi di dottorato (elaborata nel 1980, ma – diremmo – quanto mai attuale): “Perseguitati a causa del Nome. Struttura dei racconti di persecuzione in Atti 1, 12 – 8, 4. Di Rainer Maria Woelki, già ausiliare di Colonia (dunque stretto collaboratore del cardinale Joachim Meisner) e da sei mesi in funzione come arcivescovo di Berlino, si ricordano invece tra l’altro le parole con cui ha salutato Benedetto XVI in visita il 22 settembre: Berlino è “una città nella quale solo circa una persona su tre appartiene a una Chiesa cristiana; una città dove Dio è stato dimenticato e che è caratterizzata dall’ateismo” e tuttavia in essa “molte persone chiedono Dio e chiedono di Lui”.

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