Riflessioni sul messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali
Anche Dio tace
Gianfranco Ravasi
Lo scorso 24 gennaio, quando la liturgia celebrava san Francesco di Sales, scrittore e comunicatore, patrono dei giornalisti, Benedetto XVI anticipava la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali — che si celebrerà il 20 maggio — con un messaggio di forte intensità spirituale dedicato alla Parola e al silenzio. E concludeva con questa considerazione: «Educarsi alla comunicazione vuol dire imparare ad ascoltare, a contemplare, oltre che a parlare, e questo è particolarmente importante per gli agenti dell’evangelizzazione: silenzio e parola sono entrambi elementi essenziali e integranti dell’agire comunicativo della Chiesa, per un rinnovato annuncio di Cristo nel mondo contemporaneo».
Sulla scia delle suggestioni di quel documento, abbiamo così pensato di affrontare il tema del silenzio, un argomento alto e denso, nonostante sia privo di parole. Lo affronteremo da un’altra angolatura. Cantava padre David Maria Turoldo (di cui in questo mese celebriamo il ventesimo dalla morte): «Un chiostro è il mio cuore / ove Tu scendi a sera / io e Te soli / a prolungare il colloquio». Si intuisce in questi versi che il dialogo con Dio non ha solo parole ma soprattutto silenzi: non per nulla nella tradizione giudaica il nome di Dio — elemento fondamentale in ogni religione — non lo si deve dire ma solo tacere.
Questo silenzio è lo stesso del “mistero”, parola greca che rimanda al verbo myein che esige il chiudere le labbra nel tacere, perché il mistero custodisce il divino che è infinito, eterno e ineffabile, ma che è anche efficace, potente, salvifico. Noi, perciò, ci interesseremo ora proprio del silenzio di Dio, non tanto di quello dell’uomo, pur importante perché Qohelet ci ricorda che «c’è un tempo per parlare e un tempo per tacere» (3, 7). Il tacere divino — ben diverso da quello degli idoli che è mutismo perché oggetti inerti («sono come uno spauracchio in un campo di cetrioli: non sanno parlare», ironizzerà Geremia) — ha due volti, l’uno di rivelazione e di grazia, l’altro di giudizio e di ira.
La più affascinante rappresentazione del silenzio “bianco” divino — sintesi di ogni rivelazione proprio come accade a questo colore che riunisce in sé tutta la gamma cromatica (non per nulla è il colore dell’ambito divino nell’Apocalisse) — è nelle tre parole ebraiche che descrivono l’epifania del Signore davanti al profeta fuggiasco e scoraggiato, Elia, giunto alla vetta dell’Horeb-Sinai: qôl demamah daqqah, una «voce di silenzio sottile» (1 Re, 19, 12). Il profeta “focoso” (egli era «come fuoco e la sua parola bruciava come fiaccola», si legge in Siracide 48, 1) aveva atteso Dio negli altri segni teofanici sinaitici, clamorosi e rumorosi: il «vento gagliardo e potente», il terremoto, la folgore. Ma il Signore non era lì, bensì nel silenzio che era segno non di assenza ma di presenza efficace, pronta a rimettere di nuovo Elia sulla strada della sua missione.
Altre versioni, come quella della Conferenza Episcopale Italiana, optano per una resa pure possibile, anche se meno legata al testo ebraico così come suona: «voce di brezza leggera» (in questa linea anche l’antica traduzione greca dei Settanta). Ci si mette, quindi, nella sequenza dei fenomeni atmosferici precedenti, sostituendo alla violenza di un temporale il sussurro lieve di una brezza. Ma l’originale ebraico, confermato anche da alcuni testi di Qumran, ci riporta a un silenzio simile a quello che si allarga nel cielo dell’Apocalisse all’apertura del settimo sigillo, quando «si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora» (8, 1).
Una rivelazione silenziosa (l’esegeta Hermann Gunkel parla di una «musica silenziosa») domina anche il Salmo 19: il creato trasmette il messaggio del suo Creatore senza suoni udibili: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio» (2-5). È una sorta di Tôrah cosmica silenziosa a cui subentra poi la Tôrah scritta, che è cantata nella seconda parte del Salmo.
È suggestivo il commento che André Neher ci ha lasciato nel suo saggio L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz (Marietti 1983): «Se la Bibbia sa identificare l’infinito cosmico col silenzio, sa anche che tale infinito non è che il velo di un altro Infinito, quello del Creatore, la cui Parola trascorre attraverso l’immensità per raggiungere l’uomo, ma il cui Essere intimo non può identificarsi anch’esso se non con il silenzio».
Continuiamo, però, la nostra ricerca sul silenzio positivo divino penetrando anche nel Nuovo Testamento con la figura di Cristo.
Pensiamo ai momenti di solitudine che ripetutamente Gesù cerca, allontanandosi dalla folla per incontrare il Padre nella preghiera (un esempio per tutti in Marco 1, 35). Ma mi sembrano significativi in questo senso e positivi nel loro risultato anche i silenzi che Cristo impone ai segni del male, generando così la salvezza: ai demoni (Marco 1, 25), alla tempesta, emblema del caos (Marco 4, 39), agli avversari che lo vogliono far cadere (Matteo 22, 34), agli stessi discepoli che non comprendono il significato della sua sofferenza e della sua gloria (Marco 8, 30; 9, 9), ai malati guariti perché non si equivochi sul valore dei miracoli (Marco 1, 44).
Altre volte è il silenzio di Gesù stesso che si rivela in realtà come una lezione o un monito o un giudizio sul suo interlocutore: di fronte all’adultera e ai suoi accusatori (Giovanni, 8, 6. 8), davanti al Sinedrio che lo interroga (Marco, 14, 60-61), a Pilato (Marco, 15, 4-5), a Erode (Luca, 23, 9). Quando entra nel sentiero oscuro della passione il suo è un silenzio eloquente, che si modella su quello del Servo sofferente cantato da Isaia: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì bocca: era (...) come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca» (53, 7). C’è, quindi, un silenzio sacrificale che diventa principio di salvezza per l’umanità peccatrice.
Tutto questo fa parte di un disegno divino misterioso che è rivelato, ossia un messaggio taciuto che viene svelato, ed è proprio san Paolo a connettere al tema del silenzio questo piano salvifico che egli chiama appunto “mistero”, il cui valore etimologico abbiamo già illustrato sopra. L’Apostolo, nella “dossologia” (inno di gloria) che suggella la Lettera ai Romani, canta «la rivelazione del mistero avvolto nel silenzio [si usa il verbo greco sigào, presente dieci volte nel Nuovo Testamento] per secoli eterni, ma ora manifestato mediante le Scritture dei profeti, per ordine dell’eterno Dio, annunciato a tutte le genti» (16, 25). Fin qui il silenzio luminoso di Dio.
Ma c’è anche un suo tacere che genera paura e amarezza. Il fedele sente quasi come un incubo quel mutismo che ha il tono dell’assenza e dell’indifferenza e persino dell’abbandono. Per questo, l’orante del Salterio spesso grida a Dio: «Signore, tu hai visto, non tacere! Non stare da me lontano! (...) Non essere sordo alle mie lacrime! (...) A te grido, Signore, mia roccia, con me non tacere perché, se tu non parli, sono come chi scende nella fossa infernale!» (Salmi , 35, 22; 39, 13; 28, 1). Il “perché?”, il “fino a quando?” che viene spesso lanciato verso l’alto dagli oranti sofferenti vorrebbe scuotere questo Dio muto, persino addormentato (44, 24).
La storia senza la parola di Dio o quella dei suoi profeti diventa incomprensibile e insopportabile, ma la stessa fede cade in un dramma: l’inazione divina diviene un argomento dei negatori di Dio che possono ripetere il motteggio sarcastico evocato dall’autore del Salmo 42, «Dov’è il tuo Dio?». Altre volte, però, il silenzio di Dio è il segno esplicito del suo giudizio sul peccato del popolo: «grideranno al Signore, ma egli non risponderà, nasconderà loro la faccia, perché hanno compiuto azioni malvagie», minaccia il profeta Michea (3, 4).
Emblematico a questo proposito è uno dei tanti atti simbolici che Ezechiele compie. Il Signore, infatti, gli annuncia: «Farò aderire la tua lingua al palato e resterai muto; così non sarai più per loro uno che li rimprovera, perché sono una genia di ribelli» (3, 26). Il messaggio è chiaro: il profeta incarna la scelta divina di non ammonire più il suo popolo, lasciandolo immerso nel suo male fino ad affogare. Ancora una volta il silenzio del Signore — incarnato nel profeta muto, voce di Dio spenta — è segno di giudizio. Quando la bocca di Ezechiele lancerà ancora suoni (24, 27; 33, 22), sarà indizio del ritorno della misericordia divina, del perdono e della conversione di Israele.
Nel Nuovo Testamento la rappresentazione negativa più alta e drammatica del silenzio divino la si ha sulla croce di Cristo, quando egli sperimenta l’abbandono del Padre attraverso il suo silenzio: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco, 15, 34). Eppure quel vuoto, che rende Cristo veramente e pienamente nostro fratello non solo nel dolore e nella morte, ma anche nell’assenza di Dio, non sfocerà nella definitiva lontananza e nella solitudine. Incombe, infatti, l’alba della Pasqua quando il Padre risponderà efficacemente all’invocazione del Figlio attraverso la risurrezione.
Commentava Heinrich Schlier (1900-1978), famoso teologo ed esegeta tedesco: «Proprio nel momento in cui Dio gli fa provare l’essere senza Dio, il patire, il morire senza Dio, Gesù si rivolge a Dio col Salmo dei pii dell’antica Alleanza. Non grida nel vuoto, ma a Lui, verso di Lui! Si rivolge a Dio, senza Dio! Depone ai piedi del Dio che l’ha abbandonato anche l’angoscia del morire senza Dio. Proprio attraverso questa esperienza, Gesù alla fine diventa per tutti il vincitore del morire abbandonati da Dio, il vincitore della morte senza Dio!».
(©L'Osservatore Romano 3 febbraio 2012)
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