sabato 10 novembre 2012

Donne nordiche pellegrine nel medioevo (Alessandra Bartolomei Romagnoli)

Donne nordiche pellegrine nel medioevo

Quelle strane girovaghe dello spirito


Il 9 novembre a Roma, all'Istituto di Norvegia e al Pontificio Consiglio della Cultura, si svolge il convegno «Ai confini della cristianità: alla ricerca dell'eredità comune fra Norvegia e Santa Sede». Pubblichiamo stralci di una delle relazioni.


di Alessandra Bartolomei Romagnoli


Il primo pellegrinaggio cristiano fu un pellegrinaggio di donne a un sepolcro vuoto, la mattina di Pasqua. Nello scarno racconto lucano della Resurrezione sono già presenti tutti gli elementi costitutivi e intrinseci del controverso statuto della profezia femminile: il cammino verso un luogo segnato da una scomparsa, la dialettica tra presenza e assenza, e poi il comando soprannaturale di portare un annuncio. Il dire angelico prende qui la forma di una parola che contraddice la fatalità storica e ripristina una possibilità e una eventualità all'interno di quello che i fatti affermano come impossibile: Cristo è risorto. Per questo la testimonianza verrà accolta come follia e vaneggiamento. Ma la parola dell'angelo, “uomo divino”, è doppiamente trasgressiva: proprio in quanto consegnata a delle donne sfida anche un ordine stabilito e una gerarchia sociale.

Molte donne del Nord Europa alla fine del medioevo sono scese a Roma e in questa città sono vissute: tra loro Brigida di Svezia con sua figlia Caterina e l'inglese Margery Kempe. Pur con i condizionamenti e i filtri posti dalle fonti agiografiche e spirituali, il loro sguardo ci offre, dall'esterno, una testimonianza preziosa sulla vita e la realtà concreta della città nel tardo medioevo.
Si tratta di figure molto differenti per origine, formazione, percorsi esistenziali, ma sono accomunate dalla loro condizione di pellegrine, e dunque di alienigenae, straniere. Donne che hanno infranto una legge universalmente valida per l'universo femminile, nel mondo antico e non solo: Domi mansit, lanam fecit. Invece esse hanno scelto, del cristianesimo, la dimensione della paroichìa oggi diremmo del dépaysement, del girar raminghe in un Paese lontano, secondo l'antichissima tradizione del viaggio sacro. Laiche, mistiche e visionarie, espiano nella carne e nel sangue la sofferenza delle membra malate della santa Chiesa. Per questo la presa di contatto con Roma conduce alcune di loro, quasi inevitabilmente, anche a una riflessione più ampia sui grandi problemi che attraversano la cattolicità in quello che gli storici chiamano il tempo delle crisi, o delle prove. In una fase caratterizzata da una progressiva disarticolazione degli equilibri tradizionali, sia in rapporto al trasferimento del papato ad Avignone che alle divisioni della Chiesa fra Trecento e Quattrocento, si aprono gli spazi alla parola mistica, all'esercizio di quello che Vauchez definisce il “potere informale” che trova la legittimazione in una investitura carismatica diretta.
Per questo la classica figura del pellegrinaggio nella città santa, si carica di valenze ulteriori, diventando anche il segno di una missione profetica, di una denuncia, in cui tensioni religiose e spirituali si collegano esplicitamente a intenzioni politiche e civili.
La tradizione del pellegrinaggio femminile è ben attestata sin dalla tarda antichità. Gli autori ecclesiastici, già diffidenti nei confronti dei pellegrini, lo erano in misura maggiore nei confronti delle pellegrine. E alcuni grandi maestri dell'ascesi cristiana, denunciando i rischi di una religione materiale, legata alla sacralità dei luoghi e delle cose (quasi un residuo di paganesimo), avvertivano che il vero cammino da intraprendere è quello dell'anima, verso una Gerusalemme interiore, in cui Dio viene adorato “in spirito e verità”.
Ma non tutti i Padri accettavano in blocco l'ideologia stanziale veicolata dalla nuova prassi monastica. Nonostante i dubbi e le perplessità avanzati da Atanasio e Gregorio di Nissa, Girolamo tesseva nell'Epitaphium sanctae Paulae l'elogio di quelle donne forti che avevano saputo riscattare la fragilitas del proprio sesso, affrontando la sofferenza dell'abbandono e i travagli e le fatiche di un passagium che si voleva propedeutico -- quasi rito di iniziazione -- alla pax monastica dei deserti della Calcide.
San Bonifacio, in una lettera all'arcivescovo di Canterbury del 747, lamentava che troppe donne si recassero in pellegrinaggio nell'Urbe: «La maggior parte di loro soccombe e poche di quelle che ritornano conservano la loro castità. Quasi non vi è città in Lombardia o in Gallia in cui non vi sia una inglese adultera o prostituta». Riserve e perplessità che non offuscarono l'eccezionale richiamo di Roma, ché anzi, a partire dal ix secolo gli aspetti devozionali del viaggio si arricchirono di ulteriori e delicate motivazioni penitenziali.
Fu però nel Trecento che la pratica del pellegrinaggio femminile assunse proporzioni del tutto nuove. L'accresciuta domanda, da porsi in relazione con le opportunità giubilari, pose infatti problemi disciplinari concreti e attirò l'attenzione di predicatori e direttori di coscienza. Fu emanata una norma che, adducendo ragioni di ordine pubblico, vietava l'ingresso delle donne in molte chiese. John Capgrave, un colto agostiniano inglese, nella sua Description of Rome del 1450 giustificava l'esclusione con il fatto che quando venivano esposte le reliquie più preziose e l'afflusso era particolarmente forte, «alcune donne, o malate, o in attesa di un bambino, correvano grave pericolo di venire calpestate o ferite». Fra i loca romani interdetti al pubblico femminile, per la verità non molti, vi erano la cappella di San Giovanni Battista nella basilica lateranense, quella del Salvatore, ma anche il sacello del Sancta sanctorum.
Ancora largamente aperto era dunque il dibattito di antica ascendenza monastica sull'opportunità del pellegrinaggio in relazione ai rischi materiali e morali connessi con il viaggio. Ma a questi dubbi si collegavano, implicitamente, anche i sospetti nei confronti di queste strane girovaghe dello spirito.
Dovette farne amara esperienza una visionaria inglese, Margery Kempe, che, reduce dalla Terrasanta, si fermò a Roma per sei mesi nel 1416. Margery aveva estasi, rapimenti, udiva voci angeliche. Nella basilica dei Santi Apostoli, nel giorno della festa di san Giovanni Battista, si unì in sposalizio mistico con Gesù. Ma queste esperienze le attirarono calunnie e sospetti di eterodossia, complicati dalle difficoltà di comprensione del suo strano idioma, perché Margery era in grado di esprimersi solo in inglese.
Il clima di Roma in quegli anni era teso e difficile, e solo pochi mesi prima del suo arrivo, nel maggio del 1415, il concilio di Costanza aveva condannato gli scritti del grande eresiarca inglese Wycliff. Una donna loquace e stravagante, che portava vesti bianche, piangeva e parlava ad alta voce in chiesa in una lingua incomprensibile, non poteva passare inosservata. Fu accusata di essersi scelta come confessore un prete tedesco che non era in grado di valutare correttamente il reale significato dei suoi messaggi soprannaturali e fu anche espulsa dall'ospedale della nazione inglese, San Tommaso di Canterbury, la grande fondazione del 1362.
Quando, ormai vecchia, fra il 1431 e il 1438, avrebbe dettato le sue memorie, avrebbe raccontato di aver molto faticato e sofferto prima di farsi una reputazione a Roma e di essere finalmente accettata e integrata nella comunità.
Se il loro statuto di pellegrine era spesso contestato, anche le condizioni di vita di queste straniere non erano facili. Ne abbiamo una testimonianza nella Vita di Caterina (1331-1381), la figlia di Brigida di Svezia (1303-1373), tanto più preziosa, anche in considerazione della situazione privilegiata delle due donne. Il loro rango era principesco e la cerchia delle frequentazioni, ricostruita con precisione da Arnold Esch, adeguata alla loro estrazione elevata. Ma anche queste pellegrine aristocratiche, accolte nei circoli più ristretti della città, non sono poi così garantite, se solo un miracolo riesce a strappare la giovane figlia di Brigida a un tentativo di rapimento mentre cum multis matronibus nobilibus urbis Romae si reca in pellegrinaggio nella basilica di San Sebastiano fuori le Mura, lontana dal cuore dell'abitato, in una zona le cui strade sono controllate dai briganti.

(©L'Osservatore Romano 10 novembre 2012)

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