Il seminario di studio promosso dalla Cei
Roma, 13. Si è aperto ieri, presso Villa Aurelia a Roma, il seminario di studio per i vescovi italiani sul tema «Credere in Lui ed attingere alla Sua sorgente. Anno della Fede e Nuova Evangelizzazione», promosso dalla Conferenza episcopale italiana (Cei). I lavori, che si svolgono a porte chiuse e si concludono mercoledì 14, sono stati introdotti dal vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Cei. Nella prima relazione in programma («La circolarità tra il contenuto della fede e l'atto di fede»), l'arcivescovo Luis Francisco Ladaria Ferrer, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha osservato che «credere con il cuore, aprire il cuore, che è sempre opera della grazia di Dio, sono elementi fondamentali quando si tratta della fede. A questo atteggiamento si deve riconoscere un'importanza decisiva». Alla fede del cuore, «possibile solo con la grazia di Dio, deve corrispondere la proclamazione con le labbra». Ma «ugualmente importante in questo contesto è che la fede e la corrispondente confessione, hanno un contenuto ben preciso: Gesù è il Signore e Dio lo ha risuscitato dai morti. Questa è la “parola della fede”». Esiste però anche «una fede “morta”, quella che non è accompagnata dalle opere dell'amore (cfr. Lettera di Giacomo 2, 14-26). Nella mattinata di oggi -- i cui lavori sono stati moderati dal vescovo Marcello Semeraro, presidente della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l'annuncio e la catechesi -- si sono tenuti gli interventi del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, su «Il Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione», e del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, sul tema «Celebrare la fede in Gesù Signore». Pubblichiamo stralci di quest'ultimo intervento.
(©L'Osservatore Romano 14 novembre 2012)
Il cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana su liturgia e trasmissione della fede
Bisogna credere per annunciare il Vangelo
di Angelo Bagnasco
Il recente sinodo su «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana», che si è celebrato nell'ottobre scorso, è stato un evento che ha messo al centro della sua attenzione l'annuncio del Vangelo dentro contesti profondamente mutati e non raramente inospitali, se non impermeabili alla seminagione evangelica. La missione della Chiesa, chiara e precisa nei suoi termini in epoca di cristianità -- nella quale la catechesi era per i Paesi e i gruppi sociali che avevano abbracciato la fede, per meglio conoscerla e praticarla, mentre la missione era per i Paesi e i gruppi sociali che non conoscevano Cristo, per convertire e accogliere i battezzati nella comunità credente -- si è fatta oggi più articolata.
Negli ultimi tre decenni, l'espressione «nuova evangelizzazione» è progressivamente passata da neologismo a indiscusso programma ecclesiale.
Ma a chi si rivolge, precisamente? Già secondo l'Instrumentum laboris, «i destinatari della nuova evangelizzazione appaiono sufficientemente identificati: si tratta di quei battezzati delle nostre comunità che vivono una nuova situazione esistenziale e culturale, dentro la quale di fatto è compromessa la loro fede e la loro testimonianza» (n. 85-86).
L'Anno della fede, solennemente inaugurato nella data dell'11 ottobre, ha come primo obiettivo quello di ravvivare la fede di credenti che vivono in modo tiepido l'eredità cristiana, che hanno lasciato illanguidire la fede interrompendo il contatto vitale con la comunità cristiana. Va tenuto in conto che, avvicinando queste persone, non si ha a che fare con un terreno vergine, ma segnato da una lontananza culturale ed emotiva oltre che fisica; con la presenza, a volte, anche di pregiudizi nei confronti del cristianesimo.
Come raggiungere gli uomini distratti e indifferenti del nostro tempo per annunciare nuovamente Gesù Cristo quale unico e universale salvatore? Ogni discorso sui cosiddetti «lontani» mette sempre di nuovo in causa quelli che sono «vicini», interpellando la qualità e lo spessore della loro fede.
È vero, infatti, che la conversione originaria riguarda chi annuncia il Vangelo prima che il destinatario di tale annuncio. Ed è anche vero che uno dei luoghi decisivi dove si realizza la conversione permanente dei cristiani è la liturgia. Di fatto, senza liturgia è impossibile qualsiasi forma di evangelizzazione e di maturazione della fede, da più punti di vista.
A ben vedere, «la liturgia contiene la parte di gran lunga più importante del deposito della fede», e non è eccessivo affermare che «essa è lo strumento più nobile del magistero ordinario della Chiesa» (Maurice Festugière, La liturgia cattolica, Padova, 2002, nota 2). In secondo luogo, come argomenta uno dei padri della riforma liturgica del XX secolo, Odo Casel, la liturgia vincola il cristiano all'oggettivo, essendo il culto il “qui e ora” dell'azione salvifica di Cristo attraverso un'espressione simbolica riconoscibile da tutti.
Queste prospettive, che hanno trovato nella Sacrosanctum concilium (1963) piena maturazione, non sempre sono state rispettate. Infatti, a volte, hanno prevalso correnti antirituali che per contrastare un «culto senza vita» -- come si usava dire, in nome di una presunta purezza della fede -- hanno spalancato le porte a una «vita senza culto», deritualizzata e privata della sua simbolizzazione religiosa. La qual cosa ha portato allo spegnersi della fede di molti o alla sua diluizione in forme generiche di servizio anche generoso al mondo.
Un interessante punto di osservazione del nostro tema è anche il cammino postconciliare della Chiesa italiana su evangelizzazione e sacramenti, che ha dato certamente buoni frutti nel chiarire come celebrazione e annuncio sono tra loro inscindibili, ma non ha evitato del tutto una certa strumentalizzazione della liturgia, piegandola ad una ulteriore via di catechesi oppure a sbocco finale della stessa. Alla base di queste posizioni si può individuare un evidente «errore antropocentrico» che fa dipendere la liturgia da esigenze pastorali contingenti, pensandola di volta in volta o a servizio della trasmissione di determinati contenuti o come forma efficace di socializzazione ecclesiale.
La seconda questione riguarda la “qualità evangelizzatrice” della liturgia. Come può la liturgia essere di aiuto all'evangelizzazione, trattandosi di un linguaggio che è di sua natura simbolico-rituale?
Date queste premesse, due orientamenti appaiono necessari. Il primo, di carattere più esterno, riguarda la preziosa opportunità pastorale che le varie celebrazioni liturgiche costituiscono in ordine all'evangelizzazione. Pensiamo in particolare alla celebrazione del Battesimo dei bambini, che moltissime famiglie, anche se non più praticanti, oggi ancora chiedono. Pensiamo a quando due giovani, decidendo di unire le proprie vite per costituire una famiglia, pensano al matrimonio e bussano alle porte delle nostre parrocchie. A volte non sono ben consapevoli della portata della loro richiesta, a volte sono spinti solo dalle loro famiglie di origine o dal fascino che la ritualità della Chiesa ancora può offrire. È comunque un'occasione in cui accolgono con disponibilità anche l'invito ad una preparazione immediata che può dischiudere loro un nuovo cammino e nuove prospettive di fede. Pensiamo poi al momento della sofferenza e della morte, nel quale la domanda del “rito” cristiano rivela il desiderio, magari espresso in modo non sempre consapevole, di cercare conforto e speranza nella comunità credente, come luogo proprio della presenza di un “mistero che vince la morte”.
Il secondo orientamento ci conduce a considerare il rapporto tra evangelizzazione e liturgia come decisivo in ordine all'efficacia della missione della Chiesa. La Chiesa infatti, celebrando il mistero pasquale, ne proclama la perenne attualità, e riconosce che nell'azione liturgica l'evento di Cristo e la storia dell'uomo si compenetrano e si compongono in unità. Se infatti l'evangelizzazione è flebile, spesso questo è il risultato di cristiani deboli, che non vivono profondamente i misteri che celebrano. La celebrazione liturgica, infatti, riscatta e purifica l'amore dell'uomo verso Dio dal rischio di un soggettivismo illusorio, che pretende di amare Dio con modalità che l'uomo pensa siano le migliori o le più rispondenti ai suoi propri bisogni. Invece, il valore “oggettivo” del rito, che l'uomo non si inventa volta per volta, mette in atto la fede nella modalità voluta da Gesù. Nel rito liturgico infatti l'uomo agisce non come primo attore, ma come destinatario dell'azione di Dio che è il grande Protagonista; nel rito l'uomo è attivamente presente, ma a sua volta viene trasformato da ciò che celebra. L'actuosa participatio, auspicata dal Concilio (cfr. Sacrosanctum Concilium, 14), esige quindi di essere compresa nella sua giusta prospettiva. Qui la «partecipazione» alla celebrazione eucaristica viene delineata in tutti i suoi aspetti. Non è quindi solo questione di rispondere a voce alta, di cantare o di compiere movimenti, per non restare muti spettatori, ma soprattutto “arrendersi” allo Spirito e lasciarsi introdurre nella liturgia del cielo dove, con i santi e gli angeli, viene offerto l'eterno sacrificio dell'amore obbediente del Figlio. Tra le formule di congedo presenti nel rito della Messa ne troviamo una particolarmente significativa in ordine alla nostra riflessione: «Andate e portate a tutti la gioia del Signore risorto». Questa formula opera bene il legame tra la celebrazione eucaristica e la missione cristiana nel mondo. Come leggiamo in Sacramentum caritatis, la “dimissione” si trasforma in “missione”, esprimendo sinteticamente la dimensione missionaria della Chiesa. Per questo «è bene aiutare il Popolo di Dio ad approfondire questa dimensione costitutiva della vita ecclesiale, traendone spunto dalla liturgia» (n. 51). È l'impegno che ci attende in questo anno della fede nel quale siamo chiamati a valorizzare pienamente tutte le risorse che la tradizione della Chiesa ci offre, prima tra tutte la fedele celebrazione del mistero di Cristo.
(©L'Osservatore Romano 14 novembre 2012)
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