venerdì 16 novembre 2012

A colloquio con il nuovo preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra. Dal Gregoriano alla contemporanea senza pregiudizi (Filotei)

A colloquio con il nuovo preside del Pontificio Istituto di Musica Sacra

Dal gregoriano alla contemporanea senza pregiudizi


di Marcello Filotei


Con centosessanta allievi e dieci diplomati ogni anno nei sei corsi accademici il Pontificio Istituto di Musica Sacra (Pims) è in sostanza il “conservatorio” della Santa Sede. Le finalità sono diverse da quelle di altre scuole del genere, ma a sentire il nuovo preside, Vincenzo De Gregorio, dal settembre scorso alla guida dell'istituzione, le differenze sono meno nette di quanto si possa credere. «Noi non vogliamo imporre un modello, ma fornire delle tecniche e delle conoscenze che servano come ispirazione e sostegno scientifico a chi si occupa del sacro in musica. Sarebbe ridicolo del resto pretendere che oggi, a qualsiasi latitudine, si debba comporre con linguaggi definiti nel Seicento o ancora prima». Più o meno lo stesso che si fa o si dovrebbe fare nelle scuole laiche.


L'indirizzo è chiaro e definendolo si tocca subito un nervo scoperto: come si inseriscono lo studio e la composizione della musica sacra nell'ambito della produzione attuale?


Prima di tutto bisogna ricordare che il sacro in musica rappresenta il capitolo più importante dell'intero repertorio. Poi va sottolineato che la Chiesa nell'arte si è sempre caratterizzata per il rifiuto di privilegiare un solo percorso stilistico. E anche noi ci muoviamo senza pregiudizi dal gregoriano ai linguaggi musicali contemporanei. Va salvaguardata la Parola. Storicamente la curiosità esplorativa si è sviluppata a partire dalla monodia, raggiungendo poi la polifonia. Continuando ad allargare lo spettro sonoro si sono introdotti gli strumenti a tastiera, che sono in qualche modo l'anticipazione del moderno uso della tastiera del computer, una possibilità che amplia ancora di più la tavolozza a disposizione dei compositori. Le più grandi pagine di musica sacra del Seicento, del Settecento e dell'Ottocento sono strutturate con un linguaggio che progredisce, perché la tradizione non è mai ripetitiva. In questa scia ci inseriamo noi.


Perché si è fermato all'Ottocento? Qualcosa ha interrotto questo processo?


Dopo la Rivoluzione francese e il conseguente cambiamento del sistema economico occidentale, i flussi di denaro destinati a finanziare la liturgia sono diminuiti, magari sono andati a sostenere feste, cacce o balli. Proprio in quel momento la produzione artistica commissionata dalla Chiesa ha rallentato. Gradualmente la situazione è peggiorata e all'inizio del Novecento è deflagrata. Ma le motivazioni vengono da lontano, già Benedetto XIV, nel 1749, alla vigilia dell'Anno Santo denunciava il problema nell'enciclica Annus qui, nella quale invitava il clero a evitare la sciatteria delle celebrazioni liturgiche, in particolare curando il canto e richiamando a un uso appropriato della musica. Poi ci sono stati altri interventi che sono scaturiti in una presa di posizione decisa di Pio X quando il gusto profano del melodramma, ha cominciato a prevalere anche nella musica sacra. Ma del resto è stato sempre così nella storia.


Il problema dunque non è nuovo, nuova è stata nel 1911 l'idea di fondare questo istituto da parte di Pio X, in un momento in cui la questione della musica sacra era particolarmente spinosa.


Niente accade all'improvviso. L'intervento di Pio X trovava una sua gestazione nel movimento ceciliano, che si proponeva di riportare sobrietà nell'esecuzione della polifonia romana e di ricercare una maggiore partecipazione dell'assemblea nella liturgia. Un movimento che non a caso nasce in Germania, dove il confronto dei cattolici con il popolo protestante, che cantava nella lingua corrente e non in latino, era particolarmente difficile. Proprio recependo alcune istanze del cecilianesimo, Pio X intervenne con forza per evitare le derive operistiche nella celebrazione, ma anche per recuperare una buona prassi del canto gregoriano, proposta in particolare dai monaci dell'Abbazia di Solesmes. Queste due istanze confluirono in una grande fiume di conoscenza.


Quindi lo scopo dell'istituzione è quello di insegnare e studiare la prassi esecutiva, coltivando la tradizione, senza arrestare la spinta verso l'innovazione che la Chiesa ha sempre favorito. Come si declina nella prassi corrente al Pims questo atteggiamento?


Per esempio con il corso di canto gregoriano che rappresenta un unicum al mondo, un grande sguardo a una storia lunga e articolata fatta di momenti di abbandono ma anche di rifioritura, con lo studio di tutti gli accorgimenti che esaltano le sfumature della Parola. Ma l'attenzione è anche agli sviluppi che ci sono stati nel tempo, approfonditi soprattutto nel corso di musicologia attraverso la comparazione delle fonti. Questo non significa però fermarsi a quei linguaggi, ma concepire l'attesa del futuro su basi scientifiche forti. Ecco quindi la necessità di insegnare la tecnica della composizione, un corso che è il nerbo della scuola. Basta seguire l'esempio del passato, quando insegnavano qui grandi compositori, anche laici. Io, per esempio, grazie all'intelligenza di chi guidava l'istituzione, che non si rinchiudeva all'interno di un percorso autoreferenziale, dal 1967 al 1971 sono stato allievo di Vieri Tosatti, che sicuramente non era un compositore di musica sacra, ma è stato un grande artista. Quello che è importante per la “musica sacra” di oggi come di ieri non è tanto l'aggettivo “sacro”, ma la parola “musica”, intesa come profonda conoscenza delle tecniche compositive che solo in un secondo momento vengono orientate al sacro. Questo istituto non avrebbe senso se non fosse innanzi tutto fondato sulla tecnica, tenendo conto anche degli ultimi sviluppi dell'informatica.


Stiamo parlando di musica elettronica?


Mi chiedo se nel futuro anche la musica elettronica potrà essere a servizio della liturgia e dell'arte nella Chiesa. Dal punto di vista del musicista/didatta, ritengo che chi si dedicherà alla musica elettronica dovrà avere innanzitutto una solida formazione nella grammatica, nella sintassi e nelle forme della tradizione. Un po' come richiesto da tutte le arti plastiche e visive: lo studio e la tecnica del passato, innanzitutto, per poter costruire un futuro.


Quanti allievi di composizione ci sono in questo momento?


Circa trenta, vengono da tutto il mondo, prevalentemente da Paesi non europei.


Vi occupate solamente di formare dei professionisti?


No, forniamo anche un servizio diverso. Ci sono migliaia di suore, seminaristi, sacerdoti, che vengono a Roma per seguire corsi di varia natura. Per moltissimi di loro ci dovrebbe essere anche un momento di attenzione alla musica, elemento caratterizzante della liturgia in tutto il mondo. Per queste persone, che non possono partecipare ai corsi accademici ma sono interessate a una formazione musicale di base, il Pims organizza dei corsi specifici di introduzione al canto gregoriano, al pianoforte, all'armonia, al coro. Dobbiamo intercettare di più questo enorme bacino d'utenza.


Con questi numeri il Pims riesce a guidare lo sviluppo della nuova musica sacra a livello internazionale?


Negli ultimi cinquant'anni lo scenario si è molto modificato. Era più facile riuscirci negli anni in cui il modello era unico: la messa in latino e la liturgia conseguente al concilio di Trento. Ora che la celebrazione attinge alle lingue correnti la cosa cambia parecchio. In questo ambito l'importante è creare delle competenze scientifiche e tecniche che possano servire da supporto alla musica di cui ogni Chiesa locale ha bisogno. Quindi da una parte cura della tradizione, dall'altra attenzione ai nuovi linguaggi.


Ci faccia un esempio.


Recentemente ho incontrato un diplomatico africano che mi ha annunciato l'arrivo dal suo Paese di alcuni studenti. Queste persone, come altre che già frequentano l'istituto, hanno grandi doti musicali e notevoli competenze sulla loro tradizione e sui loro strumenti. Quello che possiamo fare è insegnare loro a sfruttare il pianoforte o l'organo, che sono estranei alla loro cultura. Ma non si tratta di colonialismo culturale, ma di dare delle possibilità nuove e diverse che consentano loro non solo di servirsi delle tastiere, ma anche di apprendere un codice per poi mettere nero su bianco la propria musica, confrontandola con le tecniche compositive di un'altra cultura, quella occidentale.


Ci sono progetti per favorire l'arrivo di studenti dall'estero?


Stiamo lavorando per entrare nell'Associazione europea dei conservatori, della quale non abbiamo mai fatto parte finora, per accedere anche al circuito dell'Erasmus per lo scambio di allievi e insegnanti. Paradossalmente, inoltre, i nostri titoli sono riconosciuti quasi ovunque, ma non in Italia. Bisognerà spiegare a chi si occupa della comparazione dei diplomi che noi non studiamo la liturgia da un punto di vista della celebrazione, ma da una prospettiva musicologica, insomma una musicologia liturgica.


Malgrado le questioni burocratiche da risolvere l'istituto gode di grande fama e ha una struttura importante. Cinquemila metri quadrati coperti, ottomila di giardino dimostrano anche l'attenzione della Santa Sede verso la formazione musicale. Forse non c'è nemmeno un conservatorio in Italia che può vantare una sede del genere. Ma, oltre a questa, quale è la differenza principale tra il Pims e un qualsiasi conservatorio?


Conosco bene i conservatori ne ho diretti due, per undici anni quello di Avellino e per nove quello di Napoli. La differenza principale è nel numero dei corsi, qui noi non ci occupiamo di tutti gli strumenti, ma privilegiamo pianoforte, peraltro da soli due anni, e l'organo, che è il punto di riferimento della tradizione. Poi abbiamo i corsi di composizione, di direzione di coro, di gregoriano e di musicologia. Stiamo cercando di aprire un canale di canto, un necessario percorso di conoscenza in quanto la musica per la Chiesa esiste perché esiste il canto.


Perché non c'è mai stato finora?


La possibilità di dare al canto un fondamento conoscitivo tecnico è stata trascurata perché si è fatto riferimento al solo gregoriano e alla polifonia. In realtà la conoscenza completa della tecnica vocale, che ha delle sue specificità scientifiche, è necessaria perché tutti i nostri studenti, anche quelli di gregoriano, devono avere delle conoscenze ampie. Altrimenti non si va da nessuna parte.


Stiamo parlando di lirica?


Del canto in generale. La storia della musica sacra, per fortuna, non si è mai limitata a un solo repertorio. La tradizione non è mai stata ripetitività, è continuità. Ed è per questo che la Chiesa è stata protagonista della cultura occidentale.


Ci vorranno dei mezzi adeguati.


Non mancano. L'istituto si trova nella sede attuale dall'anno accademico 1984-1985, prima si stava in piazza Sant'Agostino. Lo spostamento è stato necessario proprio per assecondare l'esigenza di allargare l'offerta didattica. L'impianto che abbiamo ereditato, l'abbazia di San Girolamo in Urbe, è in perfetto stile razionalista, anni Trenta del Novecento. È stato quindi facile distribuire in questi luoghi ex monastici un'attività di studio, che richiede da una parte raccoglimento e dall'altra ampi spazi per suonare dalla mattina alla sera. Qui si va avanti fino a notte fonda.


E la sala accademica?


Rimane a piazza Sant'Agostino, l'antica sede in un palazzo del Seicento nel centro di Roma, dove c'è anche un grande organo e un prezioso pianoforte a coda.


Quando organizzate iniziative in queste strutture o in altre avete rapporti con altre realtà vaticane?


Il coro dell'istituto parteciperà assieme a quello della Cappella Musicale Pontificia Sistina alle celebrazioni del prossimo Concistoro e anche ai vespri nella prima domenica d'Avvento. È una cosa che dovrebbe essere naturale.


Da quanto tempo non accadeva?


Credo sia la prima volta.


(©L'Osservatore Romano 16 novembre 2012)

Nessun commento: