L’interpretazione teologica del Vaticano II
Autorità e autorevolezza
«Solo il confronto diretto coi documenti può farceli riscoprire» diceva il cardinale Ratzinger nel 1985
Agostino Marchetto
Nell’introduzione al libro — sto parlando di L’Autorité et les Autorités. L’herméneutique théologique de Vatican ii (sous la direction de Gilles Routhier et Guy Jobin), Paris 2010, Cerf — i curatori attestano che Giovanni XXIII e Hans Georg Gadamer hanno qualcosa in comune, e questo loro volume sull’autorità e le autorità nell’ermeneutica postconciliare lo rileva. Si tratta de «l’appartenenza dell’ermeneutica a una tradizione d’interpretazione». Del resto anche Jürgen Habermas è qui chiamato in causa: «L’autorità è dunque un concetto che si declina in varie accezioni. Insomma gli interpreti dei testi conciliari si sono confrontati alle stesse questioni sollevate nel corso delle discussioni nell’aula conciliare e che lasciano tracce nei relativi testi».
Ciò significa «una discussione sull’autorità della Scrittura, della Tradizione, del Magistero, del sensus fidelium, della coscienza, della fede, del Papa, del collegio episcopale, delle conferenze episcopali, dell’esperienza, della pratica, e così via. [E] gli interpreti sono rinviati a una discussione giammai conclusa sui “luoghi teologici” e la loro gerarchizzazione».
Ad ogni modo «è difficile non tener conto del ruolo normativo del Magistero, un attore importante dell’ermeneutica postconciliare». Comunque «il lavoro teologico del nostro gruppo — concludono i curatori — rende manifesto che l’ermeneutica del Vaticano II, come ogni altro dossier ermeneutico, è dell’ordine dell’“entretien infini”». E allora come risolviamo il problema della giusta ricezione che finalmente dev’essere fondata su una corretta ermeneutica? Lo rimandiamo alle calende greche? Nell’impossibilità di rendere qui conto di tutti i contributi dell’opera, ci limiteremo a quelli di Gilles Routhier e di Lieven Boeve, incominciando da quest’ultimo, nella prima parte del volume, «Rivelazione, verità e autorità». All’inizio riporta l’affermazione di Joseph Ratzinger per il quale «la vera ricezione del Vaticano II non è ancora cominciata». Il successivo punto di cristallizzazione è «il teologo Ratzinger e la relazione tra Rivelazione, salute e verità» (che “interferiscono strettamente”). In effetti «la Chiesa veglia affinché la Verità resti e non vada alla deriva nella corrente del tempo». Ratzinger vede anche «un conflitto di principio tra la fede cristiana e i fondamenti del pensiero moderno».
A questo punto l’autore fa un’osservazione che desideriamo riportare, «non esiste alcuna differenza fondamentale tra le opzioni prese da Ratzinger all’inizio delle sue attività teologiche e quelle che ora difende» (p. 28), poi espone brevemente alcuni principi basilari della posizione teologica ratzingeriana, in sette punti, riguardo a Rivelazione e Tradizione, Verità e storia. Ne riporto alcuni: la Chiesa è la garanzia che attraverso i tempi la verità resta verità; La successione apostolica è la forma della Tradizione, la Tradizione è il contenuto della successione; anche se la verità della fede possiede un carattere d’eternità, la sua figura storica, invece, è continuamente condizionata dallo spazio e dal tempo.
È così che questa verità conosce uno sviluppo storico nella Tradizione; il cristianesimo è in realtà la sintesi realizzata in Gesù Cristo della fede d’Israele e dello spirito greco; l’ortodossia resta il quadro indispensabile per una legittima ortoprassi. La teoria senza prassi resta evidentemente vana e dimentica il nucleo della fede cristiana: l’amore che proviene dalla grazia.
Segue, nella trattazione, «un conflitto circa l’interpretazione del concilio», che causa in Ratzinger un malessere crescente per la modernità sempre più radicale, la quale minaccia la stessa essenza della fede cristiana. L’apertura al mondo moderno, movimento caratteristico del Concilio, non può in effetti essere erroneamente compresa.
Vi è in essa di fatto uno slancio missionario verso il mondo che pur tuttavia nulla toglie al non conformismo del Vangelo. Ed è proprio dalla discussione circa la futura Gaudium et spes che inizia — per l’autore — la lotta in vista dell’interpretazione del Concilio. Da ciò l’affermazione ratzingeriana che «la ricezione autentica del concilio Vaticano II non è ancora veramente iniziata». Dieci anni dopo il concilio, la fede cristiana si trova nella tensione fra la sua riduzione a un messianismo terrestre e un nuovo integralismo; il giusto mezzo non è stato ancora trovato. Ratzinger conclude: tutti i concili validi non sono stati, per tale solo fatto, «concili fecondi».
Nel 1985 costaterà che «le interpretazioni conciliari, tanto di destra come di sinistra, pongono in evidenza il carattere di rottura del concilio, sia per rigettare che per radicalizzare il rinnovamento». Vi è invece una continuità che non permette né di tornare indietro, né di fuggire in avanti, né nostalgie anacroniche, né impazienze ingiustificate. In questa storia non ci sono salti, né rotture. Il concilio non intendeva certo cambiare la fede ma di nuovo presentarla efficacemente. Il “rigetto” degli schemi preparatori del Vaticano II (la richiesta di ulteriore riflessione, magari) non ha giammai significato, per i Padri conciliari, rigetto della dottrina in sé; era insomma una critica «per le insufficienze della sua presentazione». In breve: nel conflitto sull’eredità del concilio, Ratzinger fa ogni volta una distinzione fra una interpretazione che vede il concilio nella continuità della tradizione nel suo insieme, e un’altra che vi vede anzitutto un punto di partenza per un cambiamento permanente.
A proposito infine della lettera e dello spirito del Vaticano II, Ratzinger dichiarò nel 1985 che solo «la lettura della lettera dei documenti può farci riscoprire il loro vero spirito».
Boeve illustra successivamente la ricezione della Dei verbum, prendendo in esame tre casi. Vi si scoprirono la necessità e i limiti dell’esegesi storico-critica, il giudizio negativo su una teologia postconciliare che corre troppo facilmente dietro alla modernità, dimentica della sua vocazione ecclesiale (diventa cioè un “magistero parallelo”). Il testo scritturistico deve poi essere letto in relazione con tutta la Bibbia. Nella conclusione e nelle prospettive l’autore si rifà al discorso di Benedetto XVI del 2005 sul problema della doppia ermeneutica conciliare, “dimenticando” di aggiungere “continuità” a quella della riforma. Anche la frase successiva, usandosi il verbo “accentua”, è pure significativa, nell’espressione «questa ermeneutica accentua una rottura tra Chiesa preconciliare e postconciliare».
In ogni caso per Boeve il problema attuale non è l’ermeneutica della discontinuità, poiché «numerosi teologi moderni accordano più spazio alla discontinuità, nello sviluppo concreto della tradizione, senza tuttavia rinunciare a una continuità più fondamentale».
Chi scrive non è d’accordo con l’autore anche perché, così facendo, evade la disgiuntiva ermeneutica posta da Benedetto XVI. Del resto riportando a conferma un testo di Edward Schillebeeckx — per il quale «è grazie alla rottura che il dogma resta vero» — rivela dove sta il suo cuore, a conferma di quanto scrive nelle pagine successive, criticando il pensiero ratzingeriano.
Comunque per l’autore — e dimostra così la citata incomprensione circa la disgiuntiva ermeneutica conciliare posta dal Papa — ogni sviluppo, o rinnovamento della Tradizione porta con sé una forma di cambiamento e di discontinuità. E qui egli gioca sull’equivoco. È fuorviante ridurre poi la questione, riconducendola alle due tendenze rivelatesi in concilio in conflitto. Così facendo dimentica che oggi è comune considerarle più vicine di quanto si pensasse, e mi riferisco alla Dei Verbum; ne è un esempio il cardinale Bea. Egli pensa in effetti che la posizione di Benedetto XVI in parola «fa assai troppo rapidamente ritornare la Chiesa nella posizione che voleva superare con il Vaticano II».
Facendo solo menzione dunque al contributo, pur interessante, di Karim Schelkens, «La recezione della Dei Verbum fra teologia e storia» — con presentazione, all’inizio delle opposte scuole nel campo delle letture conciliari — di quello intitolato «L’ermeneutica di un principio ermeneutico» di Catherine Clifford e dello studio di Joseph Famerée su «La collegialità al Sinodo straordinario del 1969», nonché dei contributi di Peter De Mey (una «Rilettura del pensiero conciliare sulla collegialità e la comunione delle Chiese tra il 1972 e il 1983») e di Laurent Villemin («L’autorità delle conferenze episcopali [e dei vescovi] in materia liturgica. Interpretazioni iniziali e reinterpretazioni recenti»), giungiamo al secondo studio, quello di Gilles Routhier che tratta di «Un mandatum docendi negato. Come si interpreta un silenzio», a partire dal Canada, in opposizione all’Apostolos suos, poiché i testi conciliari furono silenziosi al riguardo. Orbene tale silenzio va interpretato, e l’autore lo fa, analizzando i primi atti del dibattito a tale riguardo, anteriori al 1985, con periodizzazione propria. Vi è qui un richiamo consistente alla questione della pace, del disarmo, del rapporto con le autorità pubbliche — a partire da una lettera episcopale statunitense — a cui sono interessate sia le Conferenze episcopali che la Santa Sede. In effetti non si tratta di un’ermeneutica dell’insegnamento del Vaticano II ma dello sviluppo di un argomentare a difesa di una posizione stabilita nel corso della fase iniziale del dibattito. In ogni caso, peraltro, si rivelano due maniere di concepire l’esercizio del munus docendi, quella, per esempio, del cardinale Joseph Bernardin e l’altra del cardinale Ratzinger (p. 175).
Per l’autore si tratta invece di «un insegnamento nel contesto». È questa una delle caratteristiche del suo pensiero, in linea con una certa teologia e — scrive — con la Octogesima adveniens. In fondo — asserisce — «la questione è in qualche modo quella del rapporto tra il locale e l’universale, o della relazione tra un dato insegnamento e un contesto particolare» (p. 178). Così sembra non rendersi conto della distinzione tra Chiesa locale e particolare, e del fatto che il “contesto particolare” non può porsi in opposizione all’universalità dell’insegnamento (in comunione con la Sede di Pietro e quelle degli altri vescovi) nella Catholica. Successivamente l’autore difende il “processo” di scrittura dell’intervento precedentemente citato della Conferenza episcopale americana «non solamente pubblico e trasparente» ma che «congiunge sinodalità e collegialità» (p. 179: il termine sinodalità introduce la legittimità del contributo degli esperti e dei laici, e così via, anche «oltre le frontiere della Chiesa cattolica»). Con ciò si dimentica che la potestas docendi è propria dei vescovi.
Siamo davanti a «due prospettive ecclesiologiche difficilmente compatibili» (p. 180), per cui per noi è d’uopo suggerire quella magisteriale, anche se l’autore tiene in considerazione i “quadri di pensiero”, di riferimento, o gli “interessi”, la difesa di una causa, piuttosto che i metodi e gli strumenti ermeneutici.
Alla fin fine poi ricorda che molto si deve alla «comprensione della comunione o alla autorità della Chiesa universale sulle Chiese locali» (p. 183). E qui si dovrebbe ricordare ancora una volta come i documenti magisteriali risolvono in conclusione la questione. In ogni caso per Routhier non v’è solo un’ermeneutica dei testi conciliari, ma anche un’ermeneutica della ricezione.
Aggiungerei che quest’ultima, se c’è, non può andare contro quella, corretta, dei testi. Per l’autore invece quest’ultima non esiste mai isolata o staccata da quella della ricezione. È un cane che si morde la coda, se si passa l’immagine. Che poi Routhier chiami in causa la paura, in tutta questa storia, evidentemente ritrovandola in chi non è con lui, richiama la stessa posizione di quanti recentemente hanno scritto il volumetto Chi ha paura del Vaticano II? (Carocci, 2009). Tutti, semmai, dovremmo temere di non esser a esso fedeli.
Per concludere con le menzioni dei vari contributi, ricordiamo, nella terza parte dell’opera («Autorità pratiche») «Quando Gaudium et Spes fa (l’) autorità» di Guy Jobin, «L’autorità delle pratiche cristiane della carità in contesto di pluralismo» di Catherine Fino e, nella quarta parte dell’opera («Dal testo all’istituzione») l’articolo unico, quasi giocoso, di François Nault. Già il titolo intero ne fa prova poiché si chiede «Come parlare dei testi conciliari senza averli letti». L’indice generale chiude il volume, privo purtroppo di indice dei nomi; ed è un peccato oltre che una lacuna scientifica.
(©L'Osservatore Romano 2 febbraio 2012)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento