domenica 11 novembre 2012

La decadenza dello studio del latino nel commento di Manlio Simonetti (O.R.)

Tra fortune e sfortune

di Manlio Simonetti


Tra i miei più antichi e sbiaditi ricordi di una vita universitaria fin troppo lunga, c'è quello, più o meno verso la fine degli anni Cinquanta, quando ero ancora assistente, di una riunione, nell'aula prima della Facoltà di Lettere dell'attuale Sapienza, dell'Academia Latinitati Fovendae, fondata qualche anno prima in Francia, mi pare ad Avignone. Non ricordo affatto quali argomenti venissero trattati, tutti rigorosamente in latino, ma mi si è impresso nella memoria l'effetto che mi fecero da una parte il parlare un latino forbito ed elegante di Scevola Mariotti e dall'altra la pronuncia disastrosa di Jan Hendrik Waszink, studioso di chiarissima fama, che da buon francofono sbagliava tutti gli accenti.

Fu a seguito di quella riunione che il mio maestro Ettore Paratore decise di adottare la cosiddetta pronuncia scientifica del latino -- suono duro delle gutturali, pronuncia -ai del dittongo -ae, t pronunciato t e non z, e qualcos'altro -- che anch'io mi affrettai ad adottare nel liceo dove allora insegnavo. L'attività di quell'accademia, che allora suscitò, in ambiente non solo scolastico, notevole interesse, a distanza di tempo mi appare come un disperato tentativo di rivivificare, come che sia, la conoscenza del latino, che stava rovinosamente decadendo in tutta Europa, e non certo solo da poco tempo.
Osservando infatti il fenomeno in prospettiva storica e perciò sui tempi lunghissimi, l'inizio della decadenza appare lontanissimo. Il venir meno dell'impero romano in Occidente aveva necessariamente valorizzato, nel totalizzante uso della lingua latina, le variazioni dialettali delle diverse etnie che l'impero aveva unificato e che ora tornavano a dividersi. Di qui il graduale formarsi dei linguaggi volgari; ma in tempi e in ambienti nei quali l'ignoranza e l'analfabetismo erano generalizzati, i pochi in qualche modo ancora acculturati, monaci e poco più, continuavano a far uso del latino come linguaggio abituale, tale, fra l'altro, da permettere a persone di diversa nazionalità di comunicare agevolmente tra loro.
Nei lunghi secoli del medioevo l'assoluta preminenza del latino come lingua di comunicazione internazionale e di ogni espressione letteraria, di uso corrente pure nella vita privata di persone anche solo di modesta cultura, restringeva l'uso dei parlari volgari agli strati più bassi delle varie popolazioni, senza alcuna possibilità, per loro, di fare concorrenza all'uso del latino. Ma gradualmente i volgari crescono di dignità, cominciano a essere utilizzati nella vita quotidiana da persone anche di alta condizione, e finalmente cominciano ad assumere dignità letteraria.
A questo punto le sorti del latino erano segnate, anche se sarebbero trascorsi secoli prima che questa constatazione abbia cominciato a farsi strada. Infatti l'imporsi in tutta Europa, a partire dall'Italia del Trecento, della cultura umanistica e rinascimentale avrebbe portato nuova linfa alla vitalità del latino, al quale ora si affiancava, in misura più limitata e, per questo, motivo di prestigio, la conoscenza del greco: per altro non una diffusione tale da far regredire l'uso del volgare, che continua a farsi strada, fino a prevalere, a livello letterario, sia in poesia che in prosa. È vero che quasi ogni persona colta era in grado di esprimersi correntemente anche in latino, ma di fatto abitualmente si esprimeva in volgare. Casi come quello di Erasmo, che aveva bandito l'uso del volgare anche dal parlare di ogni giorno, dovevano essere rarissimi; ancora di più quelli di chi, come la figlia minore di Tommaso Moro, Maria, era capace di parlare correntemente in greco. In effetti il latino resta la lingua preferita soltanto per la comunicazione internazionale e per quella di carattere scientifico.
Nuova linfa alla conoscenza del latino, e anche del greco, apporta, nei Paesi cattolici, la Controriforma: combatte infatti, fino a proibirlo, l'uso del volgare nella liturgia e impedisce la diffusione delle traduzioni in volgare della Bibbia, mentre la ratio studiorum dei gesuiti, che s'impone in tutta Europa, anche nei Paesi protestanti, è in sostanza fondata sullo studio del latino e del greco. Tutte queste iniziative, che direttamente e indirettamente spingono a praticare l'uso del latino, coinvolgono soprattutto gli ambienti più acculturati della società, in definitiva quelli socialmente ed economicamente privilegiati, mentre più in basso ignoranza e analfabetismo imperano sovrani.
Ma ormai l'uso del volgare si è generalizzato a ogni livello nel parlare di ogni giorno, e comincia il suo utilizzo anche in ambito scientifico: Galileo, Cartesio e Leibniz scrivono le loro opere ora in volgare ora in latino. Questa situazione si protrae a lungo, ma gradualmente il volgare tende a generalizzarsi anche nella comunicazione scientifica. Mi pare di poter affermare che il regresso del latino anche in questo ambito si sia avuto, prima e più che altrove, in Inghilterra, e l'influsso che la cultura inglese ha esercitato, nel Settecento, sui Paesi del continente si è fatto avvertire anche in questo regresso. Siamo comunque nell'età dell'illuminismo, e l'internazionalizzazione della cultura giova senz'altro alle superstiti fortune del latino. Successivamente però l'avvento del romanticismo, deciso valorizzatore delle culture nazionali, accentua la già precaria condizione della nostra lingua madre. Nell'Ottocento, se si eccettuano casi del tutto singolari, come quello dell'Ungheria che conserva ancora il latino come lingua ufficiale accanto al parlare locale, la conoscenza del latino ormai si restringe dovunque a livello scolastico: in epoca in cui l'istruzione scolastica è ancora ristretta alle famiglie più abbienti, essa valorizza soprattutto la conoscenza del latino e del greco, ma a mano a mano che la scuola si diffonde anche tra i meno abbienti, comincia a diffondersi anche l'istruzione che fa a meno del latino, fino al punto che l'influsso dell'ormai aulica ratio studiorum dei gesuiti si restringe all'attuale liceo classico. A questo punto la conoscenza del latino, cui si affianca sempre quella del greco, diventa un segno di distinzione sociale, anche perché il liceo classico è la principale porta d'ingresso per l'università. Fino ad alcuni decenni fa ogni giovane cosiddetto di buona famiglia frequentava, direi quasi obbligatoriamente, questa scuola, e quindi si doveva applicare allo studio del latino e del greco.
Non è qui il caso di ritornare sull'argomento dell'utilità dello studio del latino obbligatoriamente imposto, riguardo al quale s'è detto tutto e ancora di più. Mi limito soltanto a richiamare in proposito qualche lontanissimo ricordo. Quando, anni Trenta, frequentavo il ginnasio superiore al Mamiani, considerato allora una delle migliori scuole di Roma, in una classe di una ventina di studenti eravamo in due a saper tradurre decentemente dal greco e dal latino, sì che nei compiti in classe dovevamo provvedere a soccorrere in qualche modo tutti gli altri, e nelle altre classi della scuola la situazione era, più o meno, la stessa. E si era in regime fascista, quando le tradizioni romane, che è dire latine, venivano addirittura mitizzate. Quando in seguito ho insegnato nelle stesse classi, tra i miei scolari non ce ne sono stati mai più di due o tre per classe capaci di fare una buona traduzione. Ricordo all'università le ecatombi nei risultati della traduzione, obbligatoria, di latino scritto, dove era buon esito una percentuale del dieci per cento di promossi. Insomma, se si eccettuano pochissimi veramente interessati, l'apprendimento del latino a scuola si riduceva a un appiccicaticcio, destinato a scomparire senza lasciar traccia in brevissimo tempo: qualche giorno fa mi è occorso di sentire un ex-allievo del liceo classico leggere saepe così com'è scritto!
Non mi ha pertanto meravigliato la decadenza a picco del latino nel secondo dopoguerra. Nell'università di Cagliari, dove ho insegnato dal 1959 al 1969, all'inizio più della metà degli studenti seguiva l'indirizzo di studi classici; dieci anni dopo erano ridotti al dieci per cento. All'università di Roma ho trovato inizialmente una situazione meno disastrata: in questo caso la periferia era stata innovativa anziché conservativa. Ma rapidamente anche qui la situazione è precipitata; e così è avvenuto e avviene tuttora dovunque, all'estero addirittura ancora più che in Italia: tra i miei studenti dell'Augustinianum solo qualche italiano che ha studiato nell'università di Stato sa qualcosa di latino e di greco. Perfino la Chiesa cattolica ha dismesso il latino: lo ha fatto per esigenze pastorali, ma l'abbandono si è ripercosso negativamente anche nella scuola e non solo qui.
Oggi nella vita tutto procede molto più rapidamente di prima, e così anche la decadenza del latino. In Italia l'attaccamento alla tradizione classica dovrebbe essere più forte che altrove e far da remora alla decadenza: almeno, la pensano così alcuni stranieri. Ma ormai, in un mondo proteso soltanto a un futuro sempre più tecnologico, il concetto stesso di tradizione è obsoleto, in Italia non meno che altrove.

(©L'Osservatore Romano 11 novembre 2012)

1 commento:

alberto ha detto...

La decadenza del latino comporterà ipso facto la decadenza dell'italiano... stiamo attenti o ci ritroveremo coi barbari alle porte!
Bravissimo come sempre Papa Benedetto...rimane il rimpianto che un uomo così grande non sia stato eletto eletto quarant'anni fa.