martedì 13 novembre 2012

Il passo breve dall'ateismo alla dittatura (Gerhard L. Müller)

Esperienza del mondo reale e conoscenza di Dio

Il passo breve dall'ateismo alla dittatura


di Gerhard L. Müller


«La vita è troppo breve perché si beva vino cattivo». In tale pittoresco adagio si rispecchiano le multicolori visioni del mondo di stampo epicureo che caratterizzano le élites postmoderne. All'infantile caparbietà di simile nichilismo, vorrei qui opporre l'ottimismo della visione cristiana del mondo e dell'uomo. Quell'ottimismo che san Paolo esprime con entusiasmo nella Lettera ai Romani: «Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità» (12, 12-13). È un fatto che la vita dell'uomo sulla terra sia breve, e quanto più passano i suoi giorni, tanto più ciascuno percepisce la brevitas vitae come una sfida esistenziale.

Ma proprio questo è il punto: merita profittare del tempo quale risorsa per destarsi dal sonno dell'ideologia dell'autorealizzazione e dell'uomo che si costruisce da sé. «La vita è troppo breve perché ci si logori con una cattiva filosofia». Infatti, per dirla con parole di Gaudium et spes, «di fronte all'evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi più fondamentali: cos'è l'uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l'uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?» (n. 10).
Perché libri del tipo Il gene egoista o L'illusione di Dio di Richard Dawkins o Dio non è grande di Christopher Hitchens figurano nelle liste dei bestseller? Perché giustificano in modo apparentemente scientifico il processo di scristianizzazione della civiltà europea e nordamericana, cominciato nel diciassettesimo secolo, e promuovono uno stile di vita edonistico improntato all'utile e al profitto quale indice di morale filantropica e umanitaria.
Il cosiddetto “neo-ateismo” non offre, a dire il vero, nessun tipo di nuove fondazioni, che già non sia possibile ritrovare chiaramente formulate in David Hume e in tutti coloro che da allora in poi sono appartenuti e appartengono alla schiera degli empiristi e dei materialisti. Semplicemente ci si sforza, nell'orizzonte della teoria evoluzionistica e della neurofisiologia, di estendere l'approccio tipico delle scienze naturali, così che astrofisica, biologia e ricerche sul cervello determinino una visione del mondo scientifica e, come si pretende, oggettiva, in cui non si dia più posto alcuno per l'uomo quale persona come soggetto responsabile di atti, e per il suo rapporto personale con Dio. Simile visione del mondo pseudo-scientifica propagandata dal neo-ateismo viene ai nostri giorni esaltata come programma di opinione da imporre all'intera umanità, per cui, se qualcuno crede all'esistenza di un Dio personale, a costui non deve essere concesso diritto d'esistenza né mentale, avendo contratto un “virus divino” che richiede di essere isolato, né fisica, e deve perciò essere considerato un parassita. Volgendo uno sguardo retrospettivo sull'ateismo politico coltivato dal nazionalsocialismo in Germania o sul programma stalinista di estinzione della Chiesa, realizzato nell'Unione Sovietica, risulta ancora più evidente il carattere disumano e intollerante di tale neo-ateismo. Appare infatti chiaro che il cosiddetto ateismo scientifico difficilmente può opporre resistenza al suo stesso trasformarsi in ateismo quale visione globale del mondo e dunque quale programma politico-totalitario di assoluta disumanità.
Per garantire il progetto moderno della libertà dell'individuo dalla collettività, della coscienza personale rispetto alla legge meramente positiva, della dignità inalienabile di ogni uomo rispetto alla strumentalizzazione d'interessi di gruppo (classe, popolo, capitale, e così via), è indispensabile una metafisica del reale così come un'antropologia della trascendenza dell'uomo verso la fonte indisponibile di tutta la creazione.
Una metafisica dell'essere e la conoscenza di Dio, nel senso della teologia filosofica, non sono solo d'interesse storico, ma la condizione di possibilità per cui il progetto della modernità non naufraga nella dialettica dell'illuminismo. Per questo, ai nostri giorni, come all'inizio del cristianesimo, più importante del dialogo con le religioni, pare quello con la ragione umana come tale, al fine di ritrovare un accesso integrale alla realtà data, ciò che apre le porte all'elaborazione di una teologia naturale.
Non dobbiamo ritornare a una forma passata di metafisica, per mostrare la ragionevolezza di tale approccio e dei contenuti della rivelazione soprannaturale di Dio in Gesù Cristo, di fronte alla visione del mondo derivata dalle scienze naturali e alla riflessione filosofica scaturita dalla modernità. Partiamo invece dall'esperienza del mondo reale nell'intento di giungere a un'auto-comprensione riflessa -- ciò che l'essere “spirito” rende all'uomo possibile -- e a una conoscenza di Dio, non com'è in se stesso, ma in quanto il mondo si pone in relazione con Lui, quale origine e termine di tutto l'essere finito, incluso l'uomo. L'uomo riconosce se stesso come persona solo alla luce di tale orientazione trascendente. Solo in Dio incontra la pace nella sua ricerca della verità e nella sua tensione al bene.
Il discorso su Dio non può dunque cominciare dal suo puro essere-in-sé, come se potessimo astrarre dal mondo esistente. La ragione finita e creaturale comincia sempre dall'esperienza del mondo già esistente. “Dio” sta qui a significare il punto di provenienza dell'essere e dello spirito, senza essere da parte sua una specie di oggetto mondano che viene solo aggiuntivamente conosciuto. L'uomo è sì in linea di principio e costitutivamente determinato, come spirito, dal riferimento a Dio, per lui inevitabile e di cui non può disporre. Egli deve però prender coscienza a posteriori di tale momento aprioristico e trascendentale della sua auto-attuazione. Con ciò Dio non diventa un oggetto categoriale: appare solo come l'orizzonte non abbracciabile verso cui ci muoviamo e da cui sappiamo di derivare in un senso assoluto. Lo spirito non si trascende però solo intenzionalmente in direzione dell'infinito, ma si sa costituito proprio nella sua intenzionalità dall'assoluto non mondano di Dio. Esso si coglie in ultima analisi solo mediante la realtà del Dio trascendente.
Noi concepiamo il concetto di “Dio” come la condizione reale del nostro essere come spirito nel mondo e quindi anche come la condizione della realtà finita. Mentre Dio è la propria essenza mediante l'assoluto possesso dell'essere, il mondo è realtà mediante una ricezione dell'essere sotto forma di partecipazione all'essere che lo rende finito. Il mondo partecipa all'essere di Dio, perché può esistere mediante la volontà di Dio, e precisamente nel modo della finitezza, mentre Dio sussiste mediante se stesso, in se stesso, in virtù di se stesso e attraverso la sua propria realtà.
L'azione creatrice di Dio è il permanente inserimento del mondo nell'attualità di Dio e la sua realizzazione mediante Dio. Nell'uomo la storia naturale dell'essere trapassa nella storia dello spirito e l'uomo non può perciò che concepirsi come ricezione spirituale perfetta dell'essere reale da parte della sua essenza, in cui egli sussiste come persona, nel modo, cioè, dell'essere-presso-di-sé. La creazione dell'essere e dello spirito finito indica perciò già in sé l'apertura di un orizzonte illimitato per un'esplicita auto-manifestazione di Dio nella sua Parola.
In altre parole, il Creatore viene incontro all'uomo in maniera personale come il compimento dell'auto-trascendenza che determina lo spirito creato, attirato dallo Spirito increato.
L'atto unico, atemporale e indivisibile della creazione coincide, al di fuori delle cose create, con l'attualità di Dio.
Il rapporto tra la produzione assoluta dell'uomo e della sua libertà a opera di Dio e l'auto-movimento spirituale dell'uomo, che costituisce la sua libertà, potrebbe essere così espresso: Dio non esercita alcun influsso fisicamente misurabile sulla libertà creata, andandole invece incontro come motivo del suo agire. Dio, quando mi viene liberamente incontro nella parola divina che lo esprime, si attualizza sempre come compimento della mia libertà: Dio e la sua libertà permettono al movimento dinamico della libertà creaturale di attuarsi pienamente al di là dei suoi limiti creaturali. L'uomo, per il quale Dio è diventato il movente della sua azione e della sua auto-progettazione nel mondo, sa di essere -- per dirla in termini biblici -- una specie di argilla nelle mani del creatore che lo plasma. Nello stesso tempo però, non si vede così esautorato e privato della propria libertà e personalità. Al contrario, si sperimenta piuttosto come abilitato ad attuare la propria libertà. Nel mentre la attua, sa che soltanto grazie all'auto-donazione di Dio come compimento della sua libertà egli è abilitato ad agire in ordine al fine. L'attuazione che si muove verso il fine è resa possibile solo dalla presenza diretta del fine: la libertà è abilitata dalla grazia ad accogliere, auto-attuandosi, la sua accettazione da parte di Dio. Nella grazia, Dio si rivela come la fonte eterna della libertà creata e come il suo orizzonte eterno sotto forma di amore. La forma della libertà umana, quindi, non si realizza nell'opposizione a Dio, come vorrebbe l'ateismo postulatorio, ma solo sul fondamento della perfetta libertà spirituale di Dio. Se Dio viene esaltato, anche l'uomo viene esaltato di conseguenza. La salvezza dell'uomo non può che arrivare dal Dio che offre liberamente all'uomo la sua grazia.
Paolo pertanto scrive: «Per questa grazia, infatti, siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo, infatti, opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo» (Efesini, 2, 8-10).
Su questa scia, il concilio Vaticano II insegna: «Ecco: la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione; né è dato in terra un altro Nome agli uomini, mediante il quale possono essere salvati. Essa crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana» (Gaudium et spes, 10).

(©L'Osservatore Romano 14 novembre 2012)

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