I tre anni delle visitandine nel monastero Mater Ecclesiae in Vaticano in un'intervista a suor María Begoña Sancho Herreros
Come Aronne e Cur
Dall'immagine biblica di Mosè all'impegno silenzioso per sostenere la preghiera di Benedetto XVI
di Nicola Gori
Accanto al successore di Pietro per sostenere le sue braccia alzate sulla Chiesa e sul mondo. Parte dall'immagine biblica di Mosè, suor María Begoña Sancho Herreros, superiora delle visitandine del monastero Mater Ecclesiae in Vaticano, per raccontare i tre anni di permanenza della piccola comunità religiosa tra le mura leonine. Una presenza sulla scia della tradizione inaugurata da Giovanni Paolo II, il quale pensò di affidare a un ordine di claustrali il compito di sostenere con la preghiera il Pontefice e i bisogni della Chiesa. E non a caso per l'inizio di questa particolare missione scelse la data del 13 maggio 1994, giorno del tredicesimo anniversario dell'attentato subito in piazza San Pietro. Chiamò per prime le clarisse. Rimasero cinque anni e furono poi sostituite dalle carmelitane scalze, e quindi dalle benedettine, le quali a loro volta, concluso il quinquennio, passarono il testimone proprio alle visitandine. Era il 2009. Da quell'anno però il ciclo di permanenza è stato ridotto a tre anni. Giunto ora il momento di congedarsi, suor Sancho Herreros ha tracciato per il nostro giornale il bilancio di questa singolare esperienza nel cuore della Chiesa universale.
Come avete vissuto questa particolarissima esperienza di preghiera?
Certamente è stata un'esperienza molto forte di Chiesa, di vicinanza al Papa e, al tempo stesso, di condivisione comunitaria. Abbiamo vissuto la gioia di sentirci chiamate a pregare specialmente per il successore di Pietro. Fin da quando ci alziamo nel cuore della notte. È qualcosa che rimane impresso nell'intimo. In questi pochi anni abbiamo avuto modo di incontrare tante persone, guardare il mondo e la comunità cristiana con occhi differenti. La nostra mente si è aperta ancor più alla dimensione universale della Chiesa. Eravamo sette, ma rappresentavamo tutto l'ordine della Visitazione, che si è unito spiritualmente a noi e ci ha sostenute. Abbiamo sentito, infatti, in maniera particolare la vicinanza delle nostre consorelle sparse per il mondo ma unite alle nostre preghiere.
Quali ricordi porterà con sè?
Il più significativo resterà certamente quello dell'incontro con il Papa. Vederlo da vicino, potergli parlare è stata un'esperienza carica di emozioni. Abbiamo avuto la chiara sensazione che egli si preoccupasse e si interessasse di noi, nonostante la moltitudine di impegni che ha. E questo ci ha dato una gioia immensa.
Come avete vissuto il rapporto con il resto della comunità della Città del Vaticano?
Anche questo ci ha dato una grande letizia. Quotidianamente in tanti -- cardinali, vescovi, religiosi e anche numerosi laici -- si rivolgevano a noi per confidarci le loro pene, così come le loro gioie, e si affidavano fiduciosi all'intercessione della nostra preghiera. Ma c'era anche chi voleva semplicemente condividere con noi la preghiera quotidiana. Abbiamo sentito molto affetto attorno a noi. E pensare che quando siamo arrivate non conoscevamo nessuno. Nemmeno sapevamo muoverci nel monastero. La provvidenza ci ha aiutate. Pur non chiedendo niente, tante gente ci ha portato delle cose. Abbiamo ricevuto senza chiedere e non abbiamo rifiutato nulla, come raccomandava il nostro fondatore san Francesco di Sales. E così ci è arrivato molto più di quello di cui avevamo bisogno.
C'è qualche episodio particolare che vi ha colpito di più in questi anni?
Ci sono stati momenti particolarmente intensi di fede condivisa con quanti si avvicinavano al monastero. Mi piace ricordare poi i tanti pomeriggi domenicali trascorsi in adorazione davanti al Santissimo Sacramento per chiedere sostegno al Papa e alla Chiesa; sentivamo come l'Eucaristia ci trasmettesse la forza per aiutare gli altri. Era come la vitamina necessaria per affrontare tutta la settimana. Nella quiete più assoluta, essendo praticamente ferma ogni attività in Vaticano, condividevamo davanti all'Eucaristia le ansie, le attese e i bisogni di quanti lavorano al servizio del Papa. Abbiamo condiviso, in questi momenti eucaristici, l'entusiasmo dei nostri cappellani nel servire per amore del Pontefice. E poi c'è un altro aspetto non trascurabile: abbiamo avuto del tempo per approfondire il nostro carisma, per capire come viverlo meglio e come aiutare il nostro ordine della Visitazione.
E qualcosa vissuta oltre le mura del monastero?
Oltre alla bellezza offerta dall'ambiente naturale che circonda l'edificio, effettivamente resterà nelle nostre menti anche una “sortita” segreta ma autorizzata. Mi riferisco alla visita che ci è stato concesso di compiere alla basilica di San Pietro. È stato lo stesso Benedetto XVI a consentirlo. La basilica era stata chiusa. C'eravamo soltanto noi, per un'emozione straordinaria.
Ma che senso ha per lei un monastero di clausura in Vaticano?
Dobbiamo rifarci proprio alle motivazioni addotte da Giovanni Paolo II per la sua fondazione. Le monache che vi dimorano hanno la missione specifica di pregare per la Chiesa, per il Papa e per i suoi collaboratori. D'altronde, la Chiesa insiste molto sul fatto che in ogni diocesi ci sia un monastero di clausura e, come avvertì appunto Giovanni Paolo II, a quel tempo in Vaticano non c'era. Mi piace paragonare la nostra preghiera al ruolo di Aronne e Cur che sostenevano le braccia di Mosè, mentre Israele combatteva contro Amalek. Anche noi, nel nostro piccolo, aiutiamo il Papa a mantenere le braccia alzate per aiutare la Chiesa. Crediamo fermamente nella comunione dei santi, nella trasmissione della grazia per la salvezza di tutti. È un mistero che riguarda ogni battezzato e interpella anche noi. Non sappiamo né vediamo dove va a finire il frutto della nostra preghiera, però siamo certe che Dio la utilizza per il bene comune. Non dimentichiamo poi che siamo state chiamate in Vaticano direttamente dal Papa. Per questo, sentiamo come una responsabilità e una missione la preghiera per lui. Sappiamo che molti pregano per la Chiesa e per il successore di Pietro, ma a noi questo compito è stato affidato in modo particolare. D'altronde, nei nostri monasteri si prega sempre per il Papa, ma essere qui è un'altra cosa.
Quale contributo specifico pensate di offrire per l'Anno della fede?
In questi tre anni, abbiamo cercato di vivere al meglio la nostra spiritualità, che mette in risalto la semplicità, la dolcezza, e l'umiltà, mettendo in pratica quello che visse Maria nel mistero della Visitazione. Abbiamo vissuto nel silenzio secondo la regola dataci da san Francesco di Sales e santa Giovanna Francesca de Chantal. Per l'Anno della fede ci proponiamo alcune ulteriori iniziative. A cominciare dallo studio del catechismo e dei documenti del concilio Vaticano II, fino all'approfondimento del Credo. Nelle nostre comunità visitandine, per tradizione curiamo molto la devozione al cuore eucaristico di Gesù. Questa particolare spiritualità ci spinge a diventare apostole dell'amore di Dio per annunciare e far conoscere ai fratelli le ricchezze insondabili del suo cuore. Come monache possiamo, quindi, cominciare con il condividere con quanti incontriamo un po' della nostra esperienza di Dio. Dobbiamo cercare di avvicinare i fratelli all'Eucaristia, pregare insieme con loro intorno al tabernacolo. Chi ci incontra deve poter scorgere dal nostro comportamento che crediamo realmente nell'Eucaristia, l'unica forza che può cambiare il mondo. Sono sicura che se una persona ha buona volontà, cerca sinceramente Dio e vuole conoscerlo, Cristo gli lascia nel profondo del cuore il gusto di credere. Per questo sono convinta che, nonostante le nostre difficoltà, le nostre sofferenze, i nostri limiti, possiamo contagiare il mondo con Dio. La fede si trasmette per contagio. È questo il nostro contributo per l'Anno della fede.
Dopo la celebrazione del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione si discute sulle varie modalità per portare l'annuncio del Vangelo. Quel è il contributo specifico delle monache?
Si evangelizza in vari modi e la nostra caratteristica peculiare è di farlo attraverso la preghiera. Alcuni parlano agli uomini di Dio e noi parliamo a Dio degli uomini. Chiediamo a Cristo di guardare la nostra umanità e di soccorrerla. E lo facciamo semplicemente con la preghiera. La Chiesa non ci chiede di svolgere attività apostolica, ma di vivere a pieno la nostra vocazione contemplativa. D'altronde, non possiamo andare a parlare nelle chiese o in altri luoghi. Possiamo però sfruttare i mezzi che abbiamo, cioè il parlatorio, il telefono, la corrispondenza. È importante rispondere alla gente che ci scrive e mantenere un contatto epistolare.
E i religiosi come possono evangelizzare?
I religiosi hanno la missione di diffondere la gioia. Non si può essere tristi se si ha Gesù. Una monaca triste è una triste monaca. I religiosi devono testimoniare la gioia della risurrezione e dell'amicizia con Cristo. Non devono vergognarsi di quello che sono. Credo che rientri in quest'ottica anche la testimonianza dell'abito religioso. In questo momento in cui c'è tanta crisi, la gente dovrebbe domandarsi il motivo della gioia dei consacrati. E la risposta possibile è solo una: perché hanno Dio. Con la nostra vita possiamo rendere concreto che non sono le cose a dare la felicità, ma solo Dio. Tutto il resto passa. Essere religiosi, infatti, non è un'adesione a una verità, ma a una persona.
(©L'Osservatore Romano 7 novembre 2012)
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