mercoledì 18 aprile 2012

L'umiltà e l'audacia. A sette anni dall'elezione al Pontificato: 19 aprile 2005 (Marco Doldi)

IL TEOLOGO PAPA

L'umiltà e l'audacia

A sette anni dall'elezione al Pontificato: 19 aprile 2005

Marco Doldi

Quale è la natura e il compito della teologia? J. Ratzinger lo presentava attraverso la descrizione di un antico bassorilievo, che si trova nell’antica cattedrale della città pugliese di Troia. Lo scultore ha raffigurato come ornamento del pulpito una terribile scena, che ha come protagonisti tre animali. In basso vi è un povero agnello, assalito da un feroce leone, che si trova al centro della scena. Si possono vedere le ossa e si vede anche qua e là la carne dell’agnello fatta a pezzi e divorata dalla belva. Seppure triste, l’agnello vive ancora e rivolge uno sguardo mite, ma dignitoso a chi osserva la scena. Spiegava il teologo Ratzinger: “è chiaro che l’agnello è la Chiesa, o meglio, la fede della Chiesa e nella Chiesa”. Il quadro appare pessimistico: “la vera Chiesa, la Chiesa della fede, sembra già mezza divorata dal leone”. Eppure non può essere vinta. Nel bassorilievo è rappresentato un terzo animale, un piccolo cane bianco, che si getta con forza sul leone. Quanto a forze esso appare sproporzionatamente inferiore al leone e, tuttavia, si butta sulla fiera facendo uso dei denti e degli unghioni. Se il significato dell’agnello è abbastanza chiaro, il leone probabilmente rappresenta l’eresia, che strappa alla Chiesa la sua carne, la strazia e la divora. Il piccolo cane bianco è simbolo della fedeltà e della cura del buon pastore (cfr. Gv. 10,11). È la sacra dottrina, la teologia che salva la fede dagli assalti dell’incredulità, dell’eresia, degli errori.
A questa interpretazione J. Ratzinger ne affianca un’altra assolutamente originale. Il cane coraggioso e il leone feroce indicano le due possibilità della teologia, le due vie opposte che può che essa può imboccare. Il leone “simboleggia la tentazione storica della teologia di rendersi padrona della fede”, attraverso l’uso sbagliato della ragione, ad esempio ponendo le scienze umane come interpretazione e verifica della trascendenza. Il cane coraggioso è la via opposta: indica “una teologia che sa di essere al servizio della fede e che accetta di rendersi ridicola, ricacciando al suo posto la pura ragione, intemperante e dispotica”. La teologia di J. Ratzinger appartiene a questa seconda via; egli ha scritto con l’intento di servire e custodire la fede di chi lo ascolta. Non impone il suo pensiero, ma lo sottomette al giudizio dell’interlocutore, confidando nella forza di verità delle espressioni da lui offerte. Lo ha fatto anche da papa, proponendo il primo volume del libro di “Gesù di Nazaret”. Lì, pur domandando al suo lettore quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è comprensione, lo lascia libero di contraddirlo. Traspare dalle sue parole l’intensa umiltà dello studioso, appassionato della verità e non preoccupato di trovare nello studio conferme alle proprie posizioni. In questo senso egli è profondamente libero da linee di pensiero dominanti, da mode intellettuali, da tradizionalismi o modernismi. Probabilmente, non è un autore “sistematico” nel senso classico del termine, perché egli scrive secondo la necessità del momento. Ad altri il compito di raccogliere e sistematizzare i suoi molteplici scritti. L’occasionalità dello scritto non cede ad alcuna superficialità, perché egli inquadra sempre la questione nel dibattito teologico, avvalendosi di numerosi studi, ed approfondisce il tema in modo originale.
Uno dei libri più significativi del Novecento teologico è stato “Introduzione al cristianesimo”, pubblicato da J. Ratzinger nel 1968. Qui l’autore tratteggiava la situazione di difficoltà che si è lentamente creata intorno alla conoscenza umana: che cosa è il vero? In che cosa si può credere? Il pensiero antico aveva insegnato che il vero è l’ente, cioè è l’essere stesso che è vero e quindi conoscibile, in quanto l’ha fatto Dio stesso; G. Vico (1688 – 1744) introduce una novità: risulta conoscibile per vero unicamente quello che noi abbiamo fatto. Si mettono le basi per la mentalità scientifica, che piega lo spirito umano a riflettere solo sul fatto compiuto. Ma non finisce qui, nel sec. XIX, grazie alle grandi scoperte scientifiche, si comprende che non ci sono limiti a ciò che si può fare! Si giunge alla supremazia del “da farsi” sul “già fatto”.
Tutto questo ha inevitabili ricadute sulla fede, che vive una logica diversa e ha contenuti spirituali. “La fede − spiegava il giovane J. Ratzinger − non è preordinata al campo del fatto e del fattibile, bensì al campo delle decisioni fondamentali, di cui l’uomo deve tassativamente assumersi la responsabilità”. Che cosa è dunque la fede? “È la forma, non riducibile a scienza e incommensurabile ai suoi parametri, assunta dalla posizione dell’uomo nel complesso della realtà; è l’interpretazione senza la quale l’intero uomo rimarrebbe campato per aria; è l’atteggiamento che precede il calcolo e l’azione dell’uomo, senza il quale egli in definitiva non potrebbe né calcolare né agire. L’uomo, in effetti, non vive del solo pane del fattibile, ma vive invece da uomo, e, proprio nella configurazione più tipica della sua umanità, vive di parola, di amore, di senso della realtà”.
La teologia, quel piccolo coraggioso cane bianco, salva oggi l’uomo dall’essere assorbito dal fare; non lo scredita, ma lo pone nella giusta dimensione, quella di Dio.

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