Il Papa: chi fa politica deve farsi amare... Da Benedetto XVI un appello al senso di responsabilità e al "recupero dell'etica". Poi una forte difesa dell'istituzione-famiglia
Fausto Gasparroni
MILANO
«Chi fa politica deve farsi amare». L'unico fine dev'essere «dedicarsi al bene dei cittadini»: solo così «la politica è profondamente nobilitata» e diventa «un'elevata forma di carità». Parlando alle autorità milanesi, in questo secondo giorno nella città ambrosiana per l'Incontro mondiale delle famiglie, il Papa ha rivolto un forte monito a chi occupa ruoli pubblici, ricordando anche come lo Stato debba essere «al servizio» della difesa della vita e della famiglia, la cui unica «identità» è «fondata sul matrimonio» e «aperta» alla nascita di figli.
E in serata, nella veglia con le famiglie al Parco Nord, davanti a 350 mila persone, ha anche rincarato la dose. Rispondendo infatti a una famiglia greca ha detto: «Dovrebbe crescere il senso di responsabilità dei partiti, che non devono promettere cose che non possono realizzare. Non cerchino solo voti per sé e siano responsabili per il bene di tutti. La politica è responsabilità davanti a Dio e agli uomini».
Dopo la celebrazione mattutina dell'Ora Media in Duomo e dopo il travolgente e spettacolare incontro con 80 mila cresimandi al "Meazza" di San Siro («in questo famoso stadio di calcio oggi i protagonisti siete voi: tendete ad alti ideali, siate santi», ha detto loro), Benedetto XVI ha scelto l'incontro con le autorità e la società civile nella Sala del Trono dell'Arcivescovado per lanciare un chiaro messaggio sulla sua visione del rapporto Stato-Chiesa e sul rispetto dei valori «non negoziabili» (vita, famiglia, libertà di educazione), oltre che sull'idea di una politica sana, al servizio dei cittadini, lontana da scandali, corruzione, interessi privati.
Ad ascoltarlo, in prima fila il sindaco Giuliano Pisapia, il presidente della Regione Roberto Formigoni, quello della Provincia Guido Podestà. Poi, tra gli altri, il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, il procuratore della Repubblica Edmondo Bruti Liberati, il presidente del Tribunale Livia Pomodoro, il presidente Rai Paolo Garimberti, quello della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti, il presidente dell'Inter Massimo Moratti, la presidente di Expo 2015 Diana Bracco e l'ad Giuseppe Sala.
Il Papa ha dapprima detto che La «laicità dello Stato» ha «uno dei principali elementi» nell' «assicurare la libertà affinché tutti possano proporre la loro visione della vita comune, sempre, però, nel rispetto dell'altro e nel contesto delle leggi che mirano al bene di tutti». Per Ratzinger, poi, le leggi dello Stato «debbono trovare giustificazione e forza nella legge naturale», basando su di essa il loro fondamento «etico», nella prospettiva di «un ordine adeguato alla dignità della persona umana».
«Lo Stato – ha quindi detto il Papa – è a servizio e a tutela della persona e del suo 'ben esserè nei suoi molteplici aspetti, a cominciare dal diritto alla vita, di cui non può mai essere consentita la deliberata soppressione». E per questo ha avvertito che «la legislazione e l'opera delle istituzioni statuali debbano essere in particolare a servizio della famiglia». Secondo il Pontefice, «lo Stato è chiamato a riconoscere l'identità propria della famiglia, fondata sul matrimonio e aperta alla vita», come pure «il diritto primario dei genitori alla libera educazione e formazione dei figli, secondo il progetto educativo da loro giudicato valido e pertinente». «Non si rende giustizia alla famiglia - ha aggiunto -, se lo Stato non sostiene la libertà di educazione per il bene comune dell'intera società».
Nella sua densa e articolata argomentazione, il Papa non ha mancato di definire «preziosa» la «costruttiva collaborazione» dello Stato con la Chiesa, «non per una confusione delle finalità e dei ruoli diversi e distinti del potere civile e della stessa Chiesa, ma per l'apporto che questa ha offerto e tuttora può offrire alla società», in particolare con le sue opere «al servizio del popolo».
È alla fine del suo intervento che Benedetto XVI, citando Sant'Ambrogio, ha ricordato che «a quanti vogliono collaborare al governo e all'amministrazione pubblica, egli richiede che si facciano amare». La ragione, ha rimarcato, che «muove e stimola la vostra operosa e laboriosa presenza nei vari ambiti della vita pubblica non può che essere la volontà di dedicarvi al bene dei cittadini», e quindi «una chiara espressione e un evidente segno di amore». È così che «la politica è profondamente nobilitata, diventando una elevata forma di carità». E in tempi di odio per la «casta», di denunce verso gli sprechi e della politica, di disaffezione degli elettori, di scandali a ripetizione, non è un richiamo da poco.
© Copyright Gazzetta del sud, 3 giugno 2012
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