I canti angelici del “prete rosso”
In occasione del settimo anniversario di pontificato, il Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, offre un concerto in onore di Benedetto XVI nell'Aula Paolo VI, in Vaticano. L'11 maggio Riccardo Muti dirige l'orchestra e il coro del teatro dell'Opera di Roma in un programma che prevede lo Stabat Mater e il Te Deum di Giuseppe Verdi accanto al Magnificat di Vivaldi, del quale pubblichiamo una breve illustrazione tratta dal programma di sala.
di Giovanni Carli Ballola
Noti in tutta l'Europa musicale del Settecento erano gli "ospedali" veneziani, orfanotrofi che fin dal secolo XIV accoglievano ed educavano a spese pubbliche ragazzi derelitti provenienti da ogni territorio della Dominante. In almeno quattro di tali istituti la pratica della musica emergeva per importanza e qualità ed era tipicamente coniugata al femminile, sì da farne delle effettive istituzioni concertistiche in grado di autofinanziarsi mediante l'attrattiva di concerti aperti a un pubblico pagante.
«Esistono a Venezia ospedali femminili dove le allieve suonano l'organo e diversi strumenti e cantano così mirabilmente che non sarebbe possibile ascoltare altrove canti così dolci e armoniosi. Sicché la gente accorre a Venezia da ogni dove per nutrirsi di tali canti angelici»: così nel 1698 un nobile viaggiatore russo descriveva quei luoghi destinati a intrattenimenti musicali singolarmente fascinosi.
Pochi anni dopo, il giovane prete don Antonio Vivaldi entrò a servizio come «musico di violino e maestro di concerti» nell'Ospedale della Pietà, dando inizio all'attualità di strumentista virtuoso di violino e viola e di compositore di musica da camera, da concerto e da chiesa, in una turbinosa carriera dilatata al melodramma del quale divenne affaccendato produttore.
Secondo la gerarchia dei generi, vigente (e a lungo ancora perdurante) nella civiltà musicale del secolo, la musica sacra deteneva il primato assoluto, vero e cimento dell'armonia dell'invenzione per ogni professionista dell'arte dei suoni degno di considerazione. Né a tale priorità creativa Vivaldi si sottrarrà, tanto più considerando il suo stato di ecclesiastico e la posizione contrattuale che lo vincolava alla Pietà.
Nel suo catalogo, tra i più sterminati mai lasciati dai compositori di ogni tempo, la musica sacra non poté non occupare parte cospicua, dalla Messa o sezione di Messa all'Oratorio attraverso il mottetto, l'inno, la sequenza, l'antifona e gli altri canti attinenti all'azione più propriamente liturgica o all'ascolto devozionale.
Il Magnificat o Cantico della Beata Vergine (Luca, 1, 46-55) è parte culminante dei Vespri, la liturgia della sera con la quale (prima della notturna Compieta) ha termine il ciclo delle Ore. La tradizione vigente nella prassi compositiva settecentesca usa suddividere il Cantico in diverse sezioni concatenate, che l'invenzione musicale tratta nell'estetica del contrasto risultante dalle sollecitazioni emotive e immaginose peculiari al testo intonato. Nove sono le sezioni in cui si articola il Magnificat vivaldiano, nel quale il compositore dispiega un organico comprendente un doppio coro con solisti, cui fa da riscontro una doppia orchestra d'archi, basso continuo d'organo e due oboi.
In una ripresa verosimilmente più spettacolare che liturgica del Cantico, il “prete rosso” sostituì cinque delle originarie sezioni con altre, consistenti in sontuose arie di bravura affidate ad altrettante “ospealere” di provata abilità: così l'Et exultavit toccò all'Apollonia, il Quia respexit alla Bolognesa, il Quia fecit alla Chiaretta, soprani; lo Esurientes all'Ambrosina e il Sicut locutus est all'Albetta, contralti.
Il plastico, gagliardo vitalismo che geneticamente informa il suono vivaldiano quando esplode nei concerti o nelle sonate, sembra catturare anche il latino del Cantico; e questo avviene in una varietà di forme e di scritture tali da preservare la pagina da ogni traccia di formalismo accademico, quello stile da chiesa consistente in un'astratta congerie di formule precostituite, rifugio di ogni compositore sacro dalla coscienza tranquilla.
Tanto forte e subitamente riconoscibile è la personalità del “prete rosso”, da accendersi a ogni pagina; a cominciare da quella iniziale, attraversata da capo a fondo da un severo cromatismo che sembra scolpire nel bronzo le parole dell'Evangelista. Sia rappreso in un asciutto declamato sillabico, come nell'Et misericordia, sia sviluppato in ampie volute di valenza tematica, come nel Sicut locutus est, il contrappunto si avvicenda a soluzioni di un drammaticismo intensamente figurale, dove incisivi passaggi accordali (Fecit potentiam) sfociano in unisoni brevi e violenti come una tempesta estiva (Deposuit potentes). Dispiega ovunque i suoi gesti e i suoi colori l'orchestra vivaldiana nel pieno di una scrittura di una stupefacente varietà di soluzioni, in gara con la vocalità nel reagire alle sollecitazioni espressive del testo sacro.
(©L'Osservatore Romano 11 maggio 2012)
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