sabato 12 maggio 2012
Concerto offerto al Papa da Napolitano nel segno di una "condivisione di ansie e intenti". Intervista a Riccardo Muti
Concerto offerto al Papa da Napolitano nel segno di una "condivisione di ansie e intenti". Intervista a Riccardo Muti
Un clima di grande cordialità ha caratterizzato il concerto offerto, ieri sera, in Aula Paolo VI, dal presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, a Benedetto XVI, nel settimo anniversario di Pontificato. Prima un incontro privato tra i due, poi lo scambio di doni, un violino pregiato e una partitura dell’800, offerti dal Quirinale. Il Papa, a sua volta, ha conferito al direttore d’orchestra Riccardo Muti una speciale onorificenza per la diffusione della musica sacra. In programma, il Magnificat in sol minore di Antonio Vivaldi; Stabat Mater e Te Deum, dai Quattro pezzi sacri, di Giuseppe Verdi. Protagonisti Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma. Il servizio di Gabriella Ceraso:
“Un concerto tutto italiano” quello che il presidente Napolitano ha offerto al Papa: direttori, esecutori, autori e strumenti, gli eccezionali archi d’epoca provenienti da Cremona. "Un modo - ha detto Napolitano introducendo la serata - per ringraziare Benedetto XVI per la sollecitudine e la fiducia che mostra per le sorti dell’Italia". D’altra parte “una profonda condivisione di ansie e di intenti” per i travagli del mondo, dice il capo dello Stato, segna sempre più il rapporto con la Santa Sede. Giorgio Napolitano cita le allarmanti persecuzioni contro i cristiani in Medio Oriente e la crisi economica:
“Molto ci conforta, Santità, la sua sensibilità ed attenzione per la causa dell’unità europea, così come per la dimensione etica e culturale di una crisi che va superata guardando a nuovi parametri di benessere sociale e civile da perseguire”.
Pace in Medio Oriente e crisi economica sono i temi affrontati anche nel breve colloquio prima del concerto, in cui il Papa ha assicurato il suo affetto all’Italia e la sua vicinanza, in questo momento arduo ed impegnativo. Poi la musica: il Pontefice va al cuore delle opere ascoltate, a partire dalla fede di Vivaldi, espressa nel suo ‘Magnificat’:
“E’ il canto di lode di Maria e di tutti gli umili di cuore, che riconoscono e celebrano con gioia e gratitudine l’azione di Dio nella propria vita e nella storia; di Dio che ha uno 'stile' diverso da quello dell’uomo, perché si schiera dalla parte degli ultimi per dare speranza”.
Lode, ringraziamento e meraviglia, nell’opera di Vivaldi, lasciano il passo, nei pezzi sacri di Verdi, ad una musica essenziale, che si afferra quasi alle parole per esprimere, nel modo più intenso possibile, il contenuto: una grande gamma di sentimenti, che vanno dalla pietà alla supplica, dall’anelito di gloria dello ‘Stabat Mater’ fino al grido finale del ‘Te Deum’, ‘In te, Domine, speravi’. Quasi una richiesta dello stesso Verdi, sottolinea il Pontefice, di avere speranza e luce nell’ultimo tratto della vita.
Sui caratteri della religiosità vivaldiana, così ben espressa nel "Magnificat" eseguito ieri sera, Marco Di Battista ha raccolto il parere del maestro Riccardo Muti:
R. - Gli autori napoletani - e quindi non solo Vivaldi, ma anche in tutta la musica del Settecento - quando scrivono la musica religiosa il senso del dolore è come trasfigurato. Quindi c’è un senso che non voglio definire di gioia ma di serenità e, nel caso del “Magnificat”, non siamo di fronte ad un requiem ma ad un testo che vuole magnificare il Signore. La musica del Settecento, anche nel dolore, può rispondere esattamente a tutti quei dipinti - del Settecento napoletano ed italiano in genere - dove la figura della Madonna o quella del Cristo non sono messe in una maniera estremamente tragica ma il cui dolore viene quasi trasfigurato. La musica di Vivaldi, quindi, è una musica che, in questo caso, glorifica il Signore e lo glorifica come fa Mozart quando scrive “Exultate Jubilate”: c’è un senso di gioia quasi irrefrenabile, in cui il virtuosismo che si richiede ai cantanti non è fine a se stesso ma vuole significare la gioia intrattenibile verso le ‘cose del cielo’.
D. - Più complessa, probabilmente, è la religiosità di un Verdi che scrive questi pezzi sacri alla fine della propria carriera ma che non sembrano essere dei semplici “pezzi di vecchiaia” ma dei pezzi molto sentiti dallo stesso Verdi. Una spiritualità dove c’è una specie di lotta con il sacro…
R. - In effetti, di questi quattro pezzi sacri di Verdi - che poi sono slacciati l’uno dall’altro - eseguiamo i due con orchestra, ossia lo “Stabat Mater” ed il “Te Deum”. Non si tratta affatto di ‘pezzi di vecchiaia’, anche se Verdi non li ha scritti perché voleva assolutamente scriverli, anzi: in un certo senso, sono stati una sorta di esercizio di contrappunto che fece e, addirittura, non voleva che fossero eseguiti. Vennero eseguiti tardivamente, a Parigi. Il “Te Deum” è stato scritto nel 1896, quindi parliamo di cinque anni prima della morte di Verdi. Li ha scritti mettendo però al loro interno quello che era il suo senso del trascendente, sempre con quelle luci ed ombre che tanto hanno fatto parlare musicologi ed altri personaggi, scrittori o pensatori, sulla reale credenza di Verdi nelle ‘cose dell’aldilà’. Verdi era uno che credeva nella trascendenza e nel futuro di un mondo nell’aldilà. Il “Te Deum” finisce addirittura con un mi naturale dato altissimo ai violini che, potremmo dire, danno un’indicazione del cielo, ed i contrabbassi con i violoncelli in un mi grave. In mezzo, quindi, c’è il vuoto: c’è il vuoto tra le cose dell’anima beata e le cose dell’anima che, invece, è proiettata verso l’Inferno. Queste sono tutte elucubrazioni mentali che facciamo. Personalmente, credo che se Verdi ha scritto le sue opere ed ha capito l’animo degli uomini - come scrisse D’Annunzio, che pianse per tutti -, se ne ha interpretato i dolori, le gioie, gli amori e le gelosie, ossia l’uomo nella sua totalità e nella sua spiritualità, era certamente uno che credeva nella spiritualità. Non penso che Verdi non credesse religiosamente: certo, non lo faceva magari in una maniera beghina ma moderna, ma credeva nella trascendenza dell’uomo. Sono sicuro che Verdi era così. Gli agnostici o i materialisti vogliono vedere in lui una figura che era estremamente critica. Probabilmente egli era critico nei confronti di coloro che si occupavano di religione e in questo campo, come in tutti, ci sono gli uomini positivi e quelli meno positivi. Ma nella religione in se stessa e nell’esistenza di un Dio sicuramente Verdi ci credeva, perché altrimenti avrebbe mentito nel corso di tutta la sua vita. Il “Te Deum” e lo “Stabat Mater” riflettono, non operisticamente ma in maniera teatrale - quindi il teatro è anche la vita e viceversa -, il dolore della Madre di Dio. Il “Te Deum” rappresenta anche questa forma di esplosione di gioia e di riconoscimento della luminosità di Dio portata avanti secondo la vita ed il carattere - non facile - di Verdi e con un finale che, come tutte le cose di Verdi, porta sempre ad una specie di dubbio: qual è la persona, anche la più Santa, che non ha un senso del dubbio?
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1 commento:
Giuseppe Verdi, a quanto ne so, "sarebbe stato contento di credere" (cattolicamente).
Dire che "credesse nella trascendenza dell'uomo", come fa il maestro Muti, significa semplicemente dire che seguiva l'onda dei suoi tempi, tutti volti alla celebrazione del Superuomo (non lo si chiamava ancora così, ma piuttosto "Grande Uomo"), scosso da forti passioni e acceso da alti ideali.
E ogni buon borghese si atteggiava a Grande Uomo, con tanto di barbone e baffi: Verdi compreso
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