Rapporto sulla fede: aumentano gli atei, ma il mondo non volta le spalle a Dio
Cala il numero di chi si dichiara credente, ma il mondo non volta le spalle a Dio: è quanto emerge da uno studio dell’Università di Chicago che ha raccolto dati sulla religiosità in 30 Paesi. La ricerca mette l’accento sulla crescita del numero di chi si dichiara ateo, specie in Occidente, ma al tempo stesso rivela situazioni in controtendenza rispetto a questo trend. Una complessità sulla quale si sofferma il sociologo Massimo Introvigne, intervistato da Alessandro Gisotti:
R. – Questo non è uno studio originale, ma è un’elaborazione al computer di dati già noti che vengono dall’International Social Survey Programme da tre versioni di questo programma – nel 1991, 1998 e 2008 – e riguarda solo un aspetto: le credenze. Naturalmente, i ricercatori sono consapevoli che questo è solo un indicatore. Poi c’è, per esempio, chi si reca ai riti religiosi ed è tutto un aspetto che loro non hanno preso in esame … Le conclusioni che gli stessi ricercatori propongono, sono due. Il primo che, con eccezioni in quasi tutti i Paesi, c’è un lieve aumento di coloro che si dichiarano “non credenti”, e tuttavia questo aumento è talmente ridotto in numeri assoluti, da rientrare nel margine dell’errore statistico. Mentre il secondo dato è che ci sono differenze enormi tra i Paesi.
D. – Quali sono i dati più significativi di questo Rapporto?
R. – Io ne cito due. Il Rapporto adotta categorie sue. Il livello massimo di credenza in Dio, quello di un rapporto personale con Dio che interferisce nella mia vita, tra i giovani con meno di 28 anni in Italia – e questo forse potrà sorprendere qualcuno – è ad un livello relativamente alto, sopra al 50 per cento, mentre in Francia è intorno al 10 per cento. Un altro dato: si dice che il numero degli atei aumenti, ma tra il 1998 e il 2008 in Russia è sceso dell’11,8 per cento. Segnalo ancora due dati: un forte aumento dei credenti - più 20 per cento – in Israele, che correttamente è attribuito non solo alla situazione di guerra, ma anche a un dato demografico: gli ebrei ortodossi hanno da decenni molto più figli degli ebrei secolarizzati; e un doloroso calo dei credenti in Irlanda, che è attribuibile alla grande risonanza che hanno avuto gli scandali dei preti pedofili.
D. – Cala la fede praticata, ma in qualche modo si registra un aumento nella ricerca di spiritualità …
R. – Penso che ci sia un dato nuovo, interessante e cioè lo scavo, che peraltro è congruo con molta ricerca sociologica contemporanea anche con l’attenzione della Chiesa – penso all’iniziativa del Cortile dei Gentili – uno scavo tra diverse forme di ateismo e quindi la distinzione fra un ateismo forte (quelli che sono veramente convinti di essere atei) e invece un ateismo debole, cioè una sostanziale lontananza dalla religione, specie istituzionale, ma accompagnata da dubbi e da domande. Allora, se per esempio prendo il dato italiano, trovo che gli atei forti sono – come dicevo – un numero molto basso: l’1,7 per cento; mentre questa sfera, che è quella cui veramente si rivolge l’iniziativa cattolica del Cortile dei Gentili – degli atei deboli –, a seconda di come si pongono le domande andrebbe dal 5,9 al 7,4. Mi sembra che anche dal punto di vista pastorale sia molto importante questa categoria degli atei deboli, cioè di persone lontane dalla religione ma non prive di inquietudini, di domande e di problemi. Lo stesso Santo Padre Benedetto XVI, nell’ultima parte della sua Lettera apostolica “Porta fidei” che indice l’Anno della fede, ci parla proprio di queste categorie come categorie con cui va aperto un dialogo rispettoso nella prospettiva dell’evangelizzazione.
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