Il cardinale Vegliò: il turismo arricchisce se non sfrutta i popoli e non è ridotto a mercato del folklore
"Il turismo fa la differenza" è il tema del Congresso mondiale di Pastorale del Turismo inaugurato a Cancún. L'incontro è organizzato dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti e dalla prelatura di Cancún-Chetumal, con la collaborazione della Conferenza episcopale messicana. Secondo il rapporto 2011 dell'Organizzazione Mondiale del Turismo lo scorso anno i movimenti turistici sono aumentati del 4,4%, portando a 980 milioni il numero dei turisti in viaggio in tutto il globo. Dal Congresso, giunge un invito a non sottovalutare le necessità pastorali, e le potenzialità evengelizzatrici, di questo settore della mobilità. Ma quali sono oggi gli aspetti positivi del turismo che la Chiesa sostiene e promuove? Fabio Colagrande lo ha chiesto al cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti.
R. - Posso senz’altro dire che il turismo mette a contatto con altri modi di vivere, altre religioni e forme di vedere il mondo e di concepire la sua storia. Per questo, dal punto di vista degli aspetti positivi che la Chiesa intende sostenere e promuovere, emerge il fatto che il turismo può favorire, per sua natura, sia l’incontro che il dialogo e costituisce un invito a non chiudersi nella propria cultura, ma ad aprirsi e confrontarsi con modi di pensare e vivere diversi. Per tutto ciò, il turismo è certamente un’occasione privilegiata per avvicinare le culture e, come ha detto il Beato Giovanni Paolo II, offre elementi utili per la maturazione personale, per la comprensione e il rispetto degli altri, per la carità e l’edificazione interiore nel cammino verso una più autentica umanizzazione. Certo, va tenuto presente che il turismo è un cammino di incontro nella misura in cui si realizza sulla base di una serie di condizioni precise. La prima di queste è che vi sia la volontà di incontrarsi e di arricchirsi della cultura dell’altro, superando pregiudizi e false interpretazioni, che distinguono fino al punto di discriminare. Dunque, è un itinerario per la comprensione reciproca delle persone, dei popoli e delle culture. È anche uno strumento per lo sviluppo economico e per la riduzione della povertà. Non dimentichiamo che il turismo può promuovere la pace, la tolleranza e la fratellanza fra le civiltà. È senz’altro un’opportunità di incontro con la natura, di riposo fisico e spirituale, e dunque anche occasione di contemplazione e di crescita spirituale.
D. - Quali sono invece i possibili aspetti negativi dell’attività turistica che debbono essere tenuti sotto controllo?
R. - È vero, il turismo può portare con sé anche elementi negativi. Uno di questi è il rischio di isolamento del turista rispetto al luogo che visita, quando non ci sono spazi di interazione con le persone che il turista incontra. Un altro è quello dell’avvicinamento superficiale alla cultura del luogo visitato. Il turista, segnato da pregiudizi e concezioni riduttive, si aspetta di incontrare una serie di espressioni “tipiche”, che però riducono il patrimonio culturale a una realtà immaginata che non sempre corrisponde a quella reale. Come risposta all’esigenza del visitatore, può succedere che gli autoctoni facciano per i turisti spettacolo delle loro tradizioni, offrendo la diversità come prodotto commerciale, solo per lucro, spogliandole del loro vero significato. In questi casi, il turismo può generare cambiamenti negativi nella cultura della comunità ospitante, producendo un processo di “sculturalizzazione” e di banalizzazione della cultura, nella quale il folklore, le tradizioni religiose e culturali e ogni espressione etnica si convertono in bene di consumo per i turisti, mentre le comunità locali cercano di adeguarsi alla domanda che ricevono. Poi non dimentichiamo che, a volte, il turismo può favorire pericolosi cambiamenti urbani e medio-ambientali, il deterioramento del patrimonio culturale, la perdita di valori e, ciò che è molto peggio, può diventare un elemento che compromette la dignità umana soprattutto quando si tratta di sfruttamento di esseri umani, in qualsiasi forma, in particolare sessuale, specialmente quando riguarda i minori.
D. - La Chiesa afferma che il turismo, e in particolare il "turismo sociale", deve essere un diritto riconosciuto a tutti. Cosa significa in concreto?
R. - In effetti, in questi tempi il fenomeno del turismo diventa sempre più rilevante e questo sta a dimostrare che negli ultimi decenni si è prodotta una democratizzazione del turismo, essendo questo tipo di spostamento a portata di molti. La possibilità di riposo, come anche l’opportunità di conoscere realtà nuove e di arricchirsi dei valori e delle bellezze altrui, dovrebbe essere un diritto che tutti possono esercitare. In concreto, significa ribadire quanto leggiamo nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata il 10 dicembre 1948, che nel suo articolo 24 riconosce il diritto di tutti “a riposare, a godere del tempo libero, a una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e a vacanze periodiche retribuite”.
D. - Nell’ambito del turismo religioso, quanto il patrimonio artistico e culturale può oggi essere messo al servizio della Nuova Evangelizzazione?
R. - Nella consapevolezza della Chiesa, in questi inizi del terzo millennio, bisognerebbe abbandonare antichi pregiudizi, oggi infondati, secondo i quali alcuni identificano il turismo con frivolezza o svago esclusivo per le classi sociali danarose. Ancor più, dobbiamo continuare ad approfondire il potenziale di evangelizzazione che ci offre tale aspetto della vita umana. In effetti, anche il turismo può sollecitare l’uomo contemporaneo al dialogo e al confronto anche sulle grandi questioni esistenziali quali il senso della vita e della storia, della sofferenza e della povertà, della fame e delle malattie, della morte, e dare una risposta che dia pienezza di significato nella rivelazione di Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo.
D. - Quanto è necessario ancora promuovere la pastorale del turismo nelle chiese locali?
R. - Noto con preoccupazione il fatto che la pastorale del turismo non è ancora entrata in diverse diocesi e Conferenze episcopali, oppure è considerata come qualcosa di accessorio e di cui si può fare a meno, mettendo in discussione la sua necessità e la sua importanza. In alcune aree del mondo, bisogna riconoscerlo, ci sono questioni più gravi a cui dedicare attenzione. Ma in altre situazioni tale assenza è inspiegabile, soprattutto dove il tursimo, sia quello sociale che quello religioso, è un fenomeno molto rilevante. Per questo è importante creare strutture nazionali e diocesane, dove queste già non esistano, oppure potenziare quelle esistenti, integrando la specifica pastorale del turismo in quella ordinaria delle diocesi e delle parrocchie. In tal modo, si potranno organizzare le attività turistiche con riguardo verso le peculiarità, le leggi e i costumi dei Paesi di accoglienza, per cui i turisti, prima della loro partenza, potranno essere stimolati a raccogliere informazioni sulle caratteristiche del luogo che intendono visitare. Allo stesso modo, le comunità che ricevono e i professionisti del turismo dovranno conoscere le forme di vita e le aspettative dei turisti che li visitano. Su questa linea è importante la formazione spirituale e culturale delle guide turistiche, mentre si può studiare la possibilità di creare organizzazioni di guide cattoliche.
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