La predica di padre Raniero Cantalamessa durante la celebrazione della Passione del Signore nella basilica Vaticana
Che eccellente teologo quel buon ladrone!
Pubblichiamo il testo dell'omelia del predicatore della Casa Pontificia, il cappuccino Raniero Cantalamessa, durante la celebrazione della Passione del Signore presieduta dal Papa nel pomeriggio del Venerdì santo, 6 aprile, nella basilica Vaticana.
Alcuni Padri della Chiesa hanno racchiuso in una immagine l'intero mistero della redenzione. Immagina, dicono, che si sia svolta, nello stadio, un'epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno che teneva schiava la città e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu eri sugli spalti, non hai combattuto, non hai né faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l'assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore.
Ma c'è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri, più di ogni altra cosa, vedere onorato il suo fautore e consideri quale premio del suo combattimento l'incoronazione dell'amico, in tal caso quell'uomo non otterrà forse la corona, anche se non ha né faticato né riportato ferite? Certo che l'otterrà!
Così, dicono questi Padri, avviene tra Cristo e noi. Egli, sulla croce, ha sconfitto l'antico avversario. «Le nostre spade -- esclama san Giovanni Crisostomo -- non sono insanguinate, non siamo stati nell'agone, non abbiamo riportato ferite, la battaglia non l'abbiamo neppure vista, ed ecco che otteniamo la vittoria. Sua è stata la lotta, nostra la corona. E poiché siamo stati anche noi a vincere, imitiamo quello che fanno i soldati in questi casi: con voci di gioia esaltiamo la vittoria, intoniamo inni di lode al Signore». Non si potrebbe spiegare in modo migliore il senso della liturgia che stiamo celebrando.
Ma ciò che stiamo facendo è, esso stesso, una immagine, la rappresentazione di una realtà del passato, o è la realtà stessa? Tutte e due le cose! «Noi -- diceva sant'Agostino al popolo -- sappiamo e crediamo con fede certissima che Cristo è morto una sola volta per noi[...]. Sapete perfettamente che tutto ciò è avvenuto una sola volta e tuttavia la solennità periodicamente lo rinnova [...].Verità storica e solennità liturgica non sono tra loro in contrasto, quasi che la seconda sia fallace e la prima soltanto corrisponda al vero. Di ciò infatti che la storia afferma essere avvenuto, nella realtà, una sola volta, di questo la solennità rinnova spesso la celebrazione nei cuori dei fedeli».
La liturgia «rinnova» l'evento! Paolo VI ha precisato il senso che la Chiesa cattolica dà a questa affermazione usando il verbo «rappresentare», inteso nel senso forte di ri-presentare, cioè rendere nuovamente presente e operante l'accaduto.
C'è una differenza sostanziale tra questa nostra rappresentazione liturgica della morte di Cristo e quella, per esempio, di Giulio Cesare nella tragedia di Shakespeare. Nessuno assiste da vivo all'anniversario della propria morte; Cristo sì, perché è risorto. Egli solo può dire, come fa nell'Apocalisse: «Io ero morto, ma ora vivo per sempre» (Ap 1, 18). Dobbiamo stare attenti in questo giorno, visitando i cosiddetti «sepolcri» o partecipando alle processioni del Cristo morto, di non meritare il rimprovero che il Risorto rivolse alle pie donne il mattino di Pasqua: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Lc 24, 5).
«La anamnesi, cioè il memoriale liturgico, hanno affermato alcuni autori, rende l'evento più vero di quando avvenne storicamente la prima volta». In altre parole, più vero e reale per noi che lo riviviamo «secondo lo Spirito», di quanto lo fosse per coloro che lo vivevano «secondo la carne», prima che lo Spirito Santo ne rivelasse alla Chiesa il pieno significato.
Noi non stiamo celebrando solo un anniversario, ma un mistero. Nella celebrazione «a modo di anniversario», spiega sant'Agostino, non si richiede altro se non di «indicare con una solennità religiosa il giorno preciso dell'anno in cui ricorre il ricordo dell'avvenimento stesso»; nella celebrazione a modo di mistero («in sacramento»), «non solo si commemora un avvenimento, ma lo si fa pure in modo che si capisca il suo significato e lo si accolga santamente».
Questo cambia tutto. Non si tratta solo di assistere a una rappresentazione, ma di «accoglierne» il significato, di passare da spettatori a attori. Sta a noi perciò scegliere quale parte vogliamo rappresentare nel dramma, chi vogliamo essere: se Pietro, se Giuda, se Pilato, se la folla, se il Cireneo, se Giovanni, se Maria... Nessuno può rimanere neutrale; non prendere posizione, è prenderne una ben precisa: quella di Pilato che si lava le mani o della folla che da lontano »stava a vedere» (Lc 23, 35).
Se tornando a casa, questa sera, qualcuno ci chiede: «Da dove vieni? «Dove sei stato?», rispondiamo pure, almeno nel nostro cuore: «Sul Calvario!».
Ma tutto questo non avviene automaticamente, solo perché abbiamo partecipato a questa liturgia. Si tratta, diceva Agostino, di «accogliere» il significato del mistero. Questo avviene con la fede. Non c'è musica, là dove non c'è un orecchio che l'ascolta, per quanto suoni forte l'orchestra; non c'è grazia, là dove non c'è una fede che l'accolga.
In una omelia pasquale del iv secolo, il vescovo pronunciava queste parole straordinariamente moderne e, si direbbe, esistenziali: «Per ogni uomo, il principio della vita è quello, a partire dal quale Cristo è stato immolato per lui. Ma Cristo è immolato per lui nel momento in cui egli riconosce la grazia e diventa cosciente della vita procuratagli da quell'immolazione».
Questo è avvenuto sacramentalmente nel battesimo, ma deve avvenire consapevolmente sempre di nuovo nella vita. Dobbiamo, prima di morire, avere il coraggio di fare un colpo di audacia, quasi un colpo di mano: appropriarci della vittoria di Cristo. L'appropriazione indebita! Una cosa comune purtroppo nella società in cui viviamo, ma con Gesù essa non solo non è vietata, ma è sommamente raccomandata. «Indebita» qui significa che non ci è dovuta, che non l'abbiamo meritata noi, ma ci è data gratuitamente, per fede.
Ma andiamo sul sicuro; ascoltiamo un dottore della Chiesa. «Io -- scrive san Bernardo --, quello che non posso ottenere da me stesso, me lo approprio (alla lettera, lo usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore, perché è pieno di misericordia. Mio merito, perciò, è la misericordia di Dio. Non sono certamente povero di meriti, finché lui sarà ricco di misericordia. Che se le misericordie del Signore sono molte (Sal 119, 156), io pure abbonderò di meriti. E che ne è della mia giustizia? O Signore, mi ricorderò soltanto della tua giustizia. Infatti essa è anche la mia, perché tu sei per me giustizia da parte di Dio» (cfr. 1 Cor 1, 30).
Forse che questo modo di concepire la santità rese san Bernardo meno zelante delle buone opere, meno impegnato nell'acquisto delle virtù? Forse trascurava di mortificare il suo corpo e ridurlo in schiavitù (cfr. 1 Cor 9, 27), colui che, prima di tutti e più di tutti, aveva fatto di questa appropriazione della giustizia di Cristo lo scopo della sua vita e della sua predicazione (cfr. Fil 3, 7-9)?
A Roma, come purtroppo in ogni grande città, ci sono tanti senza tetto. Esiste un nome per essi in tutte le lingue: homeless, clochards, barboni: persone umane che non posseggono che i pochi stracci che portano addosso e qualche oggetto che si portano dietro in borse in plastica. Immaginiamo che un giorno si diffonde questa voce: in Via Condotti (tutti sanno cosa rappresenta a Roma Via Condotti!) c'è la proprietaria di una boutique di lusso che, per qualche sconosciuta ragione, di interesse o di generosità, invita tutti i barboni della Stazione Termini a venire nel suo negozio; li invita a deporre i loro stracci sudici, a farsi una bella doccia e poi scegliere il vestito che desiderano tra quelli esposti e portarselo via, così, gratuitamente.
Tutti dicono in cuor loro: «Questa è una favola, non succede mai!». Verissimo, ma quello che non succede mai tra gli uomini tra di loro è quello che può succedere ogni giorno tra gli uomini e Dio, perché, davanti a Lui, quei barboni siamo noi! È quello che avviene in una bella confessione: deponi i tuoi stracci sporchi, i peccati, ricevi il bagno della misericordia e ti alzi che sei «rivestito delle vesti della salvezza, avvolto nel mantello della giustizia» (Is 61, 10).
Il pubblicano della parabola salì al tempio a pregare; disse semplicemente, ma dal profondo del cuore: «O Dio, abbi pietà di me peccatore!», e «tornò a casa giustificato» (Lc 18, 14), riconciliato, fatto nuovo, innocente. Lo stesso, se abbiamo la sua fede e il suo pentimento, si potrà dire di noi tornando a casa dopo questa liturgia.
Tra i personaggi della passione con i quali possiamo identificarci mi accorgo che ho tralasciato di nominarne uno che più di tutti aspetta chi ne segua l'esempio: il buon ladrone.
Il buon ladrone fa una completa confessione di peccato; dice al suo compagno che insulta Gesù: «Neanche tu hai timore di Dio che sei condannato alla stessa pena? Noi giustamente perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male» (Lc 23, 40 s.). Il buon ladrone si mostra qui un eccellente teologo. Solo Dio infatti, se soffre, soffre assolutamente da innocente; ogni altro essere che soffre deve dire: «Io soffro giustamente», perché, anche se non è responsabile dell'azione che gli viene imputata, non è mai del tutto senza colpa. Solo il dolore dei bambini innocenti somiglia a quello di Dio e per questo esso è così misterioso e così sacro.
Quanti delitti atroci rimasti, negli ultimi tempi, senza colpevole, quanti casi irrisolti! Il buon ladrone lancia un appello ai responsabili: fate come me, venite allo scoperto, confessate la vostra colpa; sperimenterete anche voi la gioia che provai io quando sentii la parola di Gesù: «Oggi sarai con me in paradiso!» (Lc 23, 43). Quanti rei confessi possono confermare che è stato così anche per loro: che sono passati dall'inferno al paradiso il giorno che hanno avuto il coraggio di pentirsi e confessare la loro colpa. Ne ho conosciuto qualcuno anch'io. Il paradiso promesso è la pace della coscienza, la possibilità di guardarsi nello specchio o guardare i propri figli senza doversi disprezzare.
Non portate con voi nella tomba il vostro segreto; vi procurerebbe una condanna ben più temibile di quella umana. Il nostro popolo non è spietato con chi ha sbagliato ma riconosce il male fatto, sinceramente, non solo per qualche calcolo. Al contrario! È pronto a impietosirsi e ad accompagnare il pentito nel suo cammino di redenzione (che in ogni caso diventa più breve). «Dio perdona molte cose, per un'opera buona», dice Lucia all'Innominato nei «Promessi sposi». Ancor più, dobbiamo dire, egli perdona molte cose per un atto di pentimento. Lo ha promesso solennemente: «Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve; anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come la lana» (Is 1, 18).
Riprendiamo ora a fare quello che, abbiamo sentito all'inizio, è il nostro compito in questo giorno: con voci di gioia esaltiamo la vittoria della croce, intoniamo inni di lode al Signore. «O Redemptor, sume carmen temet concinentium»: E tu, o nostro Redentore, accogli il canto che eleviamo a te.
(©L'Osservatore Romano 7 aprile 2012)
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