martedì 21 agosto 2012

Il filo rosso della Resurrezione. Ricordo dello studioso di Bibbia e liturgia Tommaso Federici a dieci anni dalla morte (Falcone)


Ricordo dello studioso di Bibbia e liturgia Tommaso Federici a dieci anni dalla morte

Il filo rosso della Resurrezione

di Antonio Falcone

Il filo rosso che accompagna tutti gli scritti di Tommaso Federici -- uno studioso eccezionale di bibbia e liturgia, collaboratore anche dell'«Osservatore Romano», morto nel 2002 -- diventandone la vera chiave ermeneutica presente in tutti i suoi lavori è la Resurrezione, evento “omega” della fede cristiana.
Egli conosce e lo ripete continuamente che la fede, se vuole essere concreta e vera, deve «annunciare la Morte del Signore, proclamare la sua gloriosa Resurrezione, attendere la sua venuta» e divenire in questo modo «il dono gratuito per cui gli uomini sono capaci di trascendere se stessi».
La formula «dopo a causa a partire dalla Resurrezione per la Grazia della Resurrezione verso la resurrezione comune» la si incontra quasi come una litania. Ribadisce con ferma convinzione che la stessa Chiesa nasce e vive dalla Resurrezione per il dono dello Spirito «tutto santo e buono e vivificante» e la vita di fede della Chiesa altro non è -- non deve essere altro -- che la perenne celebrazione del Risorto con lo Spirito nello “spazio tempo creati per la salvezza”, nello “stile dell'uomo”, nel “regime di segni” o simboli.
La parola d'ordine che deve accompagnare ogni giorno la vita della Chiesa è il grido paolino, singolare e alto: «Ora, però Cristo fu risvegliato dai morti, Primizia dei dormienti!» (1 Corinti, 15,17). «Precisamente qui, nella Resurrezione operata dal Padre con lo Spirito Santo -- e del resto operata da Cristo stesso per la sua divina potenza (Giovanni, 17-18) -- si trova l'unico fondamento totale, l'unico senso globale della vita cristiana, per intero e ogni giorno».
La Resurrezione del Signore è così «il nucleo possente, onnipotente, infinito della Pentecoste continua che giunge come l'oceano della Grazia dello Spirito Santo sugli uomini, sulla Chiesa dei santi. In termini biblici, è la Parousía, la Presenza divina triadica per gli uomini: dal Padre mediante Cristo Risorto nello Spirito Santo». E questo per la realizzazione del Disegno divino antico, «quello della divinizzazione degli uomini, che Dio non ha lasciato cadere, ma ha finalmente realizzato». E la Chiesa accoglie il dono del Padre e del Figlio “facendo memoriale” soprattutto nel “giorno” unico del Signore Risorto, la Domenica, in un “continuo celebrativo” fino alla Parousía finale.
Viviamo tempi nei quali la Chiesa, accettando il soffio dello Spirito Santo, ha fatto di nuovo posto alla divina Parola. La riflessione teologica si è molto irrobustita riscoprendo quanto la sua stessa possibilità d'esserci dipenda dalla Parola.
La Liturgia, dopo il rinnovamento conciliare, ha ridato centralità e dignità alla Parola. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Il contributo sia teologico sia “pastorale” di Tommaso Federici appare ancora una volta molto determinante ed efficace. Non si può leggere un suo testo senza avvertire la passione che lo annienta per la divina Parola. La sua principale preoccupazione è di rimandare il lettore attento all'unica Parola che conta, poiché è l'unica che salva. E tutto questo per una coerenza serrata, richiesta dall'evento decisivo della fede cristiana che conosciamo solo mediante l'Evangelo della Resurrezione.
La Parola dell'Evangelo diventa perciò il “varco” unico e insostituibile per conoscere il Mistero rivelato da Dio agli uomini e la venerazione per la Parola è pari all'amore per il Signore Risorto poiché è essa stessa “presenza” e “azione” del Signore in mezzo al suo popolo. «Tuttavia, Parola divina non inerte».
La Parola che porta con sé il Mistero divinizzante -- ripete molte volte lo studioso -- è la Parola celebrata dalla Chiesa che si lascia guidare dall'unico Spirito. È questa Parola che contiene l'«universo simbolico biblico» cristiano al quale possiamo accedere concretamente mediante il “Lezionario”, dato che la Chiesa per sé non legge semplicemente la “Santa Scrittura” come il libro stampato, ormai posseduto dai fedeli in centinaia di milioni di esemplari in tutte le lingue, ma appunto come “Lezionario biblico”. «La lettura dal Lezionario è perciò quella “normale”, autentica, della Chiesa nella pienezza e nel possesso pacifico della sua fede, che celebra».
Questo spiega la preoccupazione minuziosa di Federici nel proporre le “leggi” del Lezionario e la “lettura celebrativa” con le sue strutture e tecniche poiché sono esse che ci danno la possibilità di scoprire “che cosa la Chiesa orante fa” quando celebra.
La medesima preoccupazione emerge anche quando s'impegna a descrivere e a precisare le “tecniche di lettura” del Lezionario: metodo “diacronico”, ossia progressivo o del “continuo celebrativo” e metodo “sincronico”, o globale o della “linguistica celebrativa”. «Avviene qui il mirabile fenomeno della virtualità della Parola, sempre illimitatamente ricca di nuovi temi e visuali e contenuti, che scaturiscono dal raccostamento di tanti e diversi testi tra loro».
Questo porre al centro l'Evangelo del giorno, che rimanda sempre alla vita storica del Signore Gesù, aiuta anche a superare pericolose visuali riduttive e parziali. Occorre amare il Lezionario quale dono incalcolabile che la Chiesa si dà. E occorre farlo conoscere e amare da tutto il popolo di Dio, in specie però avviare i giovani alla sua pratica e consuetudine continua. E decidersi finalmente a fare della Santa Scrittura anche il “libro della lettura” quotidiana, la lectio divina. Questo Libro fondamentale, dice ancora lo specialista, «avrebbe anche l'opportunità di eliminare dalla vita di tutti i fedeli tanta pessima letteratura pseudospirituale che ancora corre tra le mani di troppi».
È un coniato che nel suo versante linguistico è proprio di Tommaso Federici. È una formula che indica con chiarezza il centro di ogni azione liturgica, garantisce serietà alla stessa riflessione teologica cristiana che non può essere pensata se non a partire da Cristo e dalla sua Resurrezione, l'evento storico che lo accredita come il Figlio di Dio e che riempie di senso salvifico la sua stessa morte in croce.
«L'homo religiosus è anche homo symbolicus». Se la Rivelazione giunge a noi per “simboli”, la risposta non può che esprimersi per “simboli”. Si capisce allora la preoccupazione dello studioso, che i lettori dei suoi numerosi testi conoscono bene, di recuperare la “foresta di simboli” in modo tale che nella santa Liturgia lungo l'anno della Grazia del Signore Risorto che chiamiamo anche “Anno liturgico”, trovino la giusta dignità e decoro. E tra questi al primo posto l'Evangeliario, «icona spaziale e temporale della Resurrezione», che porta “l'Evangelo della grazia” (Atti, 20,24), e poi la celebrazione di Cristo Signore nei Divini Misteri, l'Anno liturgico, l'altare, l'ambone, il battistero, le “tre tombe” da cui risorge di continuo il Risorto con lo Spirito, ... Anche l'invito ad adottare un linguaggio specifico -- si celebra il Signore, si proclama l'Evangelo, il resto della Scrittura si legge soltanto -- risponde a questa logica di linguistica celebrativa e simbolica che contribuisce a manifestare quell'“universo simbolico” nel quale l'uomo è naturalmente posto.
Il contributo di Federici è a livello di teologia e di pastorale. Egli, in modo assai lapidario e chiaro, insiste sull'importanza della divina Parola da annunciare, conoscere, amare, contemplare, studiare, per una catechesi mistagogica permanente al “popolo santo del Dio vivente” nella vita cristiana.
E la mistagogia è l'impegno fondamentale e primario della Chiesa che deve condurre gli “iniziati”, battezzati e confermati, generati alla grazia per la Parola e i sacramenti, alla pienezza del mistero.
Opera una distinzione tra catechesi e mistagogia, anche se non sempre condivisa dai “pastoralisti”. E afferma che la catechesi «va impartita ai soli catecumeni, quelli che saranno a suo tempo, e dunque non lo sono ancora, “iniziati”, la mistagogia invece va impartita ai battezzati-confermati, che hanno vissuto l'esperienza storica dell'Iniziazione, e ne vivono per sempre».
La “prima carità” in questo contesto è allora l'omelia che deve essere sempre “mistagogica e celebrativa”.

(©L'Osservatore Romano 20-21 agosto 2012) 

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