giovedì 21 giugno 2012

Torniamo a sant’Agostino. Intervista con il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia (Gianni Valente, 30Giorni)


Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:


Torniamo a sant’Agostino


«Parlare della Chiesa solo in termini di programmazione porta ineluttabilmente a pensare che, alla fine, siano gli uomini all’inizio dell’atto di fede. E questa è la trasposizione, in termini pastorali, del pensiero di Pelagio».


Intervista con Francesco Moraglia, patriarca di Venezia


di Gianni Valente


«Non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della Grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio». 


Così Benedetto XVI ha parlato ai vescovi italiani riuniti in assemblea plenaria, lo scorso 24 maggio. Mentre si avvicina l’Anno della fede, il Successore di Pietro non perde occasione per suggerire l’unica cosa che sembra stargli davvero a cuore. Sono tempi confusi, da guardare comunque con «uno sguardo riconoscente per la crescita del grano buono anche in un terreno che si presenta spesso arido». Tempi in cui anche l’attualità ecclesiastica sembra rendere più evidenti e luminose le parole di Gesù: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5). «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).
In questa cornice monsignor Francesco Moraglia ha vissuto i primi passi del suo ministero come nuovo patriarca di Venezia. Le sue risposte, nell’intervista che segue, sono un aiuto semplice a vivere come tempo propizio l’imminente Anno della fede. Sgombrando il campo da ogni rischio di “auto-occupazione” ecclesiale.


Benedetto XVI, durante il suo viaggio in Portogallo, aveva detto: «Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista». Poi ha convocato un anno della fede. Cosa ha voluto suggerire il Papa in questo modo?


FRANCESCO MORAGLIA: Convocando l’Anno della fede, il Santo Padre ha voluto indicare quella che da sempre – quindi anche oggi – è la realtà fondante la vita del credente e della Chiesa, ossia la fede.
È proprio la concezione che si ha della fede a determinare il conseguente modo d’intendere il cristianesimo; ed essendo la fede l’inizio della vita cristiana, allora, per la fede vale ciò che l’evangelista Marco dice a proposito della parabola del seminatore: se non comprendete questa, come potrete intendere tutte le altre parabole? Insomma: a seconda dell’idea che abbiamo della fede, si origina e dispiega un tipo di cristianesimo o un altro.


I giornali scrivono: questo Anno serve a “rivitalizzare” la fede. Ma questo è in nostro potere? Siamo noi – la Chiesa, il Papa, o i fedeli – gli artefici della nostra fede?


La Chiesa, il Papa, i fedeli, come anche i teologi, non stanno all’origine dell’atto di fede e della vita del credente.
Per questo dobbiamo fare attenzione al nostro modo di parlare. Nell’ambito umano ed ecclesiale il linguaggio riveste importanza fondamentale; ora, parlare della Chiesa solo o principalmente in termini di programmazione, come pure ridurre l’evangelizzazione a una questione di linguaggio, porta ineluttabilmente a pensare che, alla fine, gli uomini all’inizio dell’atto di fede. Così tutto viene ridotto a un’operazione umana. Ma questa – a ben considerare – è la trasposizione, in termini pastorali, del pensiero di Pelagio; a mio modo di vedere, oggi, più che mai, deve risuonare il nome di Agostino, alla cui scuola tutti, pastori e fedeli, dobbiamo ritornare.
Per tornare alla sua domanda: la Chiesa, il Papa e i fedeli possono – propriamente parlando – rivitalizzare la fede, innanzitutto, ponendola con rinnovata forza al centro della vita ecclesiale e proponendola come metodo di vita, meglio, come il caso serio del cristiano.


Come inizia, la fede? Può essere il risultato di un piano educativo che faccia emergere il senso religioso dell’uomo?


La fede, essendo il termine della grazia, è puro dono! Non vorrei, infatti, che, soprattutto nell’attuale contesto, stemperando il vigore di tale affermazione si finisse – come ho già detto – per qualificare la fede in termini troppo umani. Certamente, l’espressione: la fede è pura grazia, va intesa nel senso che la fede sempre ci viene offerta in modo umano, ossia interpellando la nostra libertà e mai prescindendo da essa come dalla nostra responsabilità.


Come si mantiene, si nutre e cresce la fede? Come non si perde? È questione di tenacia?


La fede si mantiene semplicemente vivendola quotidianamente nella compagnia della Chiesa; giorno dopo giorno, quindi, la si nutre e accresce appartenendo al mondo della fede e rinnovando ogni giorno la scelta della fede; in altri termini, lasciandosi portare dalla fede e ricordando che – nella concretezza della vita – alla fine, per il cristiano tutto è dono. Certamente, scoprirsi creature e gioire d’esserlo, percepirsi nelle proprie persone e nella propria storia come parti di un tutto, di un progetto che sempre ci precede e accompagna, è questa, possiamo dire, la grazia all’opera. Trovo particolarmente efficace l’espressione usata da Benedetto XVI in Porta fidei: «La fede cresce quando è vissuta come esperienza di un amore ricevuto e quando viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia…».


Quando si parla della fede, i richiami allo Spirito, alla Grazia, a Gesù, a volte appaiono come formulari rituali, premesse obbligate del “gergo” ecclesiale, per poi passare al “discorso vero” dove l’accento cade sulla strategia, sulla formula da adottare, sul piano educativo affidato a noi.


Talvolta capita anche che questi richiami siano quasi del tutto assenti dal linguaggio di chi pur si professa cristiano! Così vengono meno i fondamentali della vita battesimale. La cosa è ancor più grave se pensiamo che il linguaggio è la massima forma espressiva della cultura di una persona; in certa catechesi, per esempio, si è passati dalla confessione di Gesù salvatore, a Gesù inteso come maestro, poi amico, infine come forza spirituale.
Ma se la fede, che nella vita della persona e della Chiesa è essenzialmente dono e compimento, viene svilita in questa sua dimensione, e tutto tende a essere programmazione pastorale e costruzione umana, imbrigliando lo Spirito in scelte organizzative, allora anche la salvezza diventa un fatto di pura progettazione teologica e organizzazione pastorale. Gli esempi si possono moltiplicare, qui mi limito a indicarne uno in ambito celebrativo liturgico: l’iperattivismo creativo e un certo protagonismo dinanzi all’assemblea.


In molti discorsi, la fede viene identificata e contrario, come se la sua affermazione fosse innanzitutto una risposta a tendenze e filoni culturali della modernità in cui viviamo. Cosa pensa di questa modalità di approccio? La fede ha come prima movenza espressiva la confutazione culturale della non-fede?


Sì, è vero, il rischio indicato esiste realmente.
La fede, prima di tutto, dev’essere fedele a sé stessa, ossia deve dire Gesù Cristo, dirlo bene, dirlo a tutti, dirlo in modo comprensibile e a partire – come insegna la Dei Verbum – dalla Parola di Dio trasmessa dalla Chiesa.
La critica che era rivolta a certa manualistica coincideva proprio dal lasciarsi prendere da determinate “questioni” che si volevano confutare finendo, però, col ridurre o addirittura distorcere, in maniera inaccettabile, le verità di fede che, di per sé, si volevano annunciare.


Concretamente, per approfittare dell’occasione dell’Anno della fede, cosa occorre fare? Prendere iniziative? Fare discorsi?


La fede è risposta a una persona – alla persona di Gesù Cristo –; allora i discorsi, le conferenze, i convegni da soli sono ancora insufficienti innanzi alla realtà umano-divina della fede; sarebbero sufficienti se la fede si collocasse, unicamente, sul piano umano, se fosse una pura scelta etica o una tesi filosofica. La fede, invece, chiede d’essere colta e vissuta nella sua realtà sacramentale, ovvero, realtà umana e divina.
Sono convinto, quindi, per fare un esempio, che una più intensa partecipazione e curata educazione alla celebrazione liturgica, da parte del popolo di Dio – pastori e fedeli –, in vista di una rinnovata vita di carità verso Dio e il prossimo, sia una proposta consona, un giusto punto di partenza, in vista dell’Anno della fede.
Si tratta, lo ripeto, di coinvolgere l’intera comunità ecclesiale nell’evento della Pasqua – morte/risurrezione – di Cristo; in tal modo siamo subito condotti al centro dell’evento salvifico che può cogliersi solo nella fede; il cuore dell’atto eucaristico si connota, appunto, come mysterium fidei.


Se la fede è un dono di grazia, all’inizio e in ogni passo del cammino, questo che cosa comporta per la Chiesa, per la sua forma e per le sue dinamiche?


Comporta innumerevoli cose. Ne indico una che, però, mi sembra aiuti a comprendere: alludo all’uso dell’aggettivo possessivo “nostra”, messo dinanzi al sostantivo Chiesa; questo è un modo d’esprimersi che dice vicinanza, affetto, simpatia verso la Chiesa ma se non si ha l’avvertenza di tenerlo unito all’altra espressione: “Sua” Chiesa, il rischio è di farci considerare la Sposa di Cristo come una nostra creatura, un nostro prodotto, una realizzazione umana che, alla fine, proprio perché “nostra” possiamo sempre e di nuovo ricostruire o decostruire a piacimento. Invece, la Chiesa, innanzitutto, è Sua, ossia è di Cristo che, secondo la bella simbologia patristica dei primi secoli, ripresa poi nel Medioevo, è il sole, mentre la Chiesa si pone come mysterium lunae ed è totalmente illuminata dal sole.


A volte, anche nella nostra recente attualità ecclesiale, questa percezione del punto sorgivo della Chiesa sembra per molti cristiani offuscarsi, con una sorta di rovesciamento: da riflesso della presenza di Cristo, si passa a percepire la compagine ecclesiale come una realtà impegnata ad attestare da sé stessa la propria presenza rilevante nella storia. E tale attestazione di sé stessa viene presentata come un modo per “dimostrare” la credibilità del cristianesimo. A cosa possono portare queste dinamiche?


Se si perde di vista che l’evento cristiano è qualcosa di reale e storico, che riguarda la carne e il sangue, allora questo fatto ci conduce a una visione “spiritualista” che non riesce più a intercettare l’uomo concreto fatto, appunto, di carne e sangue.
In tal modo, se si perde di vista che la Chiesa è corpo di Cristo, allora, in ogni frangente, la Chiesa sarà alla ricerca della sua legittimazione e affermazione, divenendo autoreferenziale. Pensiamo ai due discepoli di Emmaus che non si accorgono del Risorto, continuano a parlare dei loro problemi, delle loro tristezze e non riescono ad aprire gli occhi su di Lui e a vederlo.
È il dramma sempre possibile dell’autoreferenzialità della Chiesa, che vuol dire: smarrimento della sua identità sacramentale; la Chiesa, infatti, ci ricorda ancora il Vaticano II, nella Lumen gentium, è sacramento di Cristo e, così, l’appannarsi di tale realtà non è di poco conto.
Analogamente, a volte sembra che l’intenzione di attestare la fede nel mondo sia da affidare a iniziative straordinarie o addirittura spettacolari.
Ma incamminarsi per questa strada vuol dire essere in contrasto con quanto Gesù ha detto e fatto nel Vangelo, e con la stessa realtà del vivere umano, fatto di gesti quotidiani. La Chiesa, in tal modo, si autoliquiderebbe; non si può vivere, infatti, di cose straordinarie, ma ordinarie: le cose di ogni giorno; il Vangelo non è per pochi eletti e non è fatto di cose vissute una tantum. Al contrario, è questione di salvezza tutti i giorni e per ogni uomo.


L’inizio dell’Anno della fede coincide con i cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II. Alcuni attribuiscono direttamente a quell’evento la crisi di fede, arrivando a interpretarlo come l’origine dell’arretramento del cristianesimo o addirittura come lo strumento di penetrazione di un pensiero non cattolico nella Chiesa. Lei che cosa ne pensa?


La mia ordinazione sacerdotale è avvenuta nel 1977, quindi posso dire d’esser nato teologicamente e come sacerdote dopo il grande evento ecclesiale del Concilio ecumenico Vaticano II. Se rileggiamo i testi conciliari, se ne interpretiamo lo spirito a partire dalla lettera e non contro la lettera, se non ci slanciamo in affermazioni del tipo “per fedeltà al Concilio bisogna andare oltre il Concilio” (frase in cui ognuno può trovare quello che, di volta in volta, più gli aggrada), allora non possiamo che considerare il Concilio come una vera grazia per la Chiesa del nostro tempo. Anche qui, ancora una volta, Benedetto XVI ci ha indicato la strada maestra parlando dell’ermeneutica della riforma nella continuità e prendendo le distanze da ogni ermeneutica della rottura.


L’Anno della fede ha il suo precedente in quello indetto da Paolo VI nel 1967, che culminò nella proclamazione del Credo del popolo di Dio. Come visse lei personalmente quella stagione, come la ricorda?


Allora ero un adolescente, avevo quattordici anni; ricordo bene, però, che si percepiva nei media, e conseguentemente nella società, la crescita di un clima di sospetto e comunque avverso al magistero della Chiesa. Appariva con chiarezza il tentativo di dividere la compagine ecclesiale, contrapponendo il magistero – soprattutto quello del Papa – ai fedeli, considerati il vero popolo di Dio. Si dimenticava, o forse non si voleva ricordare, che la Lumen gentium, parlando del popolo di Dio come del detentore del potere profetico e carismatico, afferma, citando Agostino: «L’universalità dei fedeli non può sbagliarsi nel credere… “quando daivescovi fino agli ultimi fedeli laici” (cfr. sant’Agostino, De praedestinatione sanctorum 14, 27: PL 44, 980) mostra l’universale consenso in questioni di fede e di morale». Erano anni in cui, con un’opportuna catechesi, si sarebbe dovuto maggiormente sostenere e accompagnare la fede dei semplici dinanzi allo strapotere degli specialisti.


L’Anno della fede coincide con una crisi economica che sta travolgendo anche le società del benessere. Qualcuno dirà che si cerca rifugio nello spirituale per sopportare i problemi materiali. Cosa c’entra, la fede, ad esempio, con la perdita del lavoro che sta angosciando anche in Italia milioni di persone?


Corrisponde a un’idea errata di fede, quella di chi si rifugia nella fede solo per non soccombere ai problemi materiali; il credente, infatti, è colui che aderisce al Signore Gesù a prescindere dal fatto che le cose, umanamente, vadano bene o male.
La fede, “soprattutto”, non riguarda qualcosa che è collaterale all’uomo. L’uomo non è già compiuto in sé a prescindere dal suo rapporto con Gesù Cristo. Al contrario, la fede è ciò che porta a compimento l’umano rispettandolo nella sua specificità e autonomia.
Detto questo, certamente la fede sostiene in modo particolare coloro che attraversano momenti difficili, aiutandoli a viverli e inserirli in un orizzonte più ampio; con questo, però, la fede non malleva il credente dal compiere tutti i passi che umanamente deve compiere e da ciò che è in suo potere di fare.
In una storiella che circolava in ambito teologico, alcuni anni fa, si racconta che una nave sta affondando e, allora, il comandante ordina: «Gli atei alle pompe, i credenti a pregare!».


Lei è nato e cresciuto a Genova e ora è patriarca di Venezia. C’è qualche tratto particolare che connota e accomuna la fede delle genti di mare?


L’amore alla propria storia e il legame alle proprie radici, il mantenere vivi i ricordi e le tradizioni, il valore dato alla religiosità popolare e, ancora, intendere il senso della vita come viaggio, l’andare verso una meta. Quindi, in ultima istanza, una grande apertura al futuro e agli altri. D’altra parte, il mare unisce sponde di Paesi e continenti diversi, il mare rende possibili la comunicazione tra gli uomini attraverso incontri e scambi commerciali ma soprattutto culturali; infine, il mare, proprio nella sua immensità, diventa simbolo di Dio e della sua infinità.


E lei cosa direbbe, della sua fede? Come è germinata? Quali avvenimenti e incontri l’hanno nutrita?


La mia fede, come assenso alle realtà credute, è, adesso, la medesima di quando tanti anni fa mi preparavo alla prima comunione e di quando facevo il chierichetto; questa la ritengo una cosa bellissima perché dice una volta di più la verità del Vangelo. Alludo all’invito di Gesù: lasciate che i bambini vengano a me; la fede, così, appare – come è realmente – per tutti: bambini e adulti, semplici e dotti, ricchi e poveri; qui appare, in un senso vero, tutta la “democraticità” della fede.
La modalità d’adesione, quindi, non tocca la sostanza dell’atto di fede che è, appunto, nella grazia, adesione al mistero e non elaborazione culturale. Proprio per questo, i differenti e molteplici modi d’adesione, più o meno colti, non toccano la fede stessa, ossia, il sì che salva.


E quali indicazioni darà a tutti per vivere l’Anno della fede?


L’indicazione è riscoprire la fede nelle sue caratteristiche proprie, superando ogni possibile riduzione e distorsione. Il rischio è di farne una realtà intellettuale o sentimentale, non cogliendola più come evento salvifico che porta a compimento l’umanità; l’uomo, da solo, non può farcela, e la fede gli permette di compiere la sua umanità; la fede completa ciò che la mia creaturalità soltanto intravede e preannuncia.
Per questo, l’indicazione di metodo che Gesù dà ai suoi, quando li chiama all’apostolato, è fondamentale. Alla domanda: maestro, dove abiti? Gesù risponde invitandoli a seguirlo. Anche noi all’inizio di quest’Anno della fede, come prima cosa, dobbiamo riscoprire la vita ecclesiale come sequela Christi. Si tratta di vivere non solamente nella Chiesa ma, come diceva quasi un secolo fa Romano Guardini, la Chiesa. E per far questo è fondamentale ricentrarsi in una preghiera più autentica – in specie quella liturgica – e anche riscoprire il gesto umile del pellegrinaggio, segno di un cammino comune verso la meta, che è il Signore Gesù, inizio e compimento della nostra fede.


Papa Luciani, anche lui patriarca, fece da papa le sue prime catechesi su fede, speranza e carità. Questa figura in che modo può offrire spunti di edificazione nell’attività pastorale?


Quest’anno ricorre il centenario della sua nascita, e cercheremo di celebrarlo in modo degno. Da alcuni è stato considerato duro o addirittura rimproverato di essere troppo fedele al Papa e al suo magistero. In realtà lui ha cercato fino alla fine di poter comporre le cose e trovare soluzione ai problemi. E, a più di trent’anni dalla sua morte, nel popolo e nelle parrocchie è rimasto un ricordo vivissimo di Luciani. I veneziani, sia di terra che di mare, conservano un ricordo grato e affettuoso del passaggio di questo patriarca. Lo ricordano come un uomo di Dio, un pastore che ha lasciato un segno tra il popolo, anche con la concretezza della sua omiletica e con la sua capacità di dialogo e ascolto.


http://www.30giorni.it/articoli_id_78432_l1.htm

1 commento:

Andrea ha detto...

Sant'Agostino va benissimo, ma la sua opposizione a Pelagio ("ci salviamo per i nostri meriti") lo condusse ad alcuni atteggiamenti irrazionalistici ("tutto è mistero, a cominciare dalla nostra salvezza").

Il vero "faro", come sempre (non lo dico io, ma il Magistero), è San Tommaso d'Aquino: Fides ET Ratio