domenica 24 giugno 2012

Il sacerdote oggi secondo l'arcivescovo Angelo Becciu che ha parlato nel Pontificio seminario regionale della Sardegna (O.R.)

Il sacerdote oggi secondo l'arcivescovo Angelo Becciu che ha parlato nel Pontificio seminario regionale della Sardegna 


Tutto di Dio tutto degli uomini


In questo momento particolare vissuto «nel cuore della Santa Sede, nel quale avvertiamo che è posta in dubbio la nostra credibilità ed è messa alla prova la fiducia di tanti cristiani» c'è bisogno di «amare di più la Chiesa», «senza lasciarci condizionare da chi ha altre chiavi di lettura». Lo ha detto l'arcivescovo Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato, durante la messa celebrata giovedì scorso, 21 giugno, memoria liturgica di san Luigi Gonzaga, tra ex alunni e seminaristi del Pontificio seminario regionale della Sardegna, curato per 44 anni dai gesuiti e poi, dal 1971, affidato alla Conferenza episcopale sarda. Pubblichiamo qui di seguito stralci dell'omelia pronunciata dal sostituto della Segreteria di Stato.


di Angelo Becciu


Celebriamo oggi la festa di san Luigi Gonzaga, compatrono del nostro Seminario e la cui devozione, oserei dire, può essere il punto di unione tra le antiche generazioni cuglieritane e quelle più recenti cagliaritane. Poiché un gran numero dei seminari post-tridentini erano diretti da Gesuiti, o s'ispiravano comunque alla spiritualità ignaziana, san Luigi fu proposto come modello a tutti gli aspiranti al sacerdozio. 
Egli non raggiunse la meta del sacerdozio, ma con la sua morte, avvenuta durante il suo ultimo anno di teologia, è diventato l'icona di quell'offerta della propria vita che rappresenta il cuore tanto del sacerdozio battesimale come di quello ministeriale. 
Quando a Roma scoppiò la peste, Luigi chiese ed ottenne di servire gli infermi nell'ospedale di San Sisto. Poco dopo, però, i superiori gli fecero lasciare quel posto, ritenendo il giovane particolarmente esposto al pericolo del contagio, a causa della sua fragile costituzione fisica. Gli fu però permesso di visitare gli ammalati ritenuti meno pericolosi, in un ospedale ai piedi del Campidoglio. In questo contesto si colloca il suo gesto sacerdotale: mentre si recava all'ospedale, vide abbandonato sulla strada un ammalato in fin di vita. Se lo caricò sulle spalle, come il buon pastore, e lo portò all'ospedale. Si trattava di un appestato e Luigi contrasse il morbo, che lo condusse alla morte: aveva appena 23 anni.
Non è questo, fratelli, il cuore del sacerdozio? Dare la vita per i fratelli, come ci ha insegnato Gesù. Egli ha dato se stesso per tutti noi, con il segno dell'amore più grande, quello che giunge a morire per l'altro. È quell'amore che Luigi ha espresso prendendo su di sé l'appestato, l'amore che ognuno di noi è chiamato a vivere giorno dopo giorno nel proprio ambiente, con quanti ci sono accanto e con quanti la Provvidenza mette sul nostro cammino. 
Secondo il suo stesso racconto, Luigi Gonzaga aveva sette anni quando, durante la preghiera, sentì un grande desiderio di donarsi tutto al Signore e pronunciò il suo sì. Era il suo modo per esprimere a Dio un amore incondizionato: con tutto il cuore, l'anima, la mente. Da quella radice germogliò l'amore per i fratelli, che lo portò fino al gesto di prendersi sulle spalle l'appestato per curarlo all'ospedale.
«Tutto di Dio, tutto degli uomini». È la vocazione del presbitero!
Benedetto XVI ha ricordato che il sacerdote può realmente essere ponte, solo se appartiene contemporaneamente alle due sfere, quella di Dio e quella dell'uomo. 
«Tutto di Dio, tutto degli uomini»: proprio vivendo questo duplice comando dell'amore, il sacerdote diventa mediatore nella via nuova percorsa da Cristo. Egli infatti è diventato mediatore attraverso l'amore più grande, quello che dà la vita: «l'uomo Cristo Gesù, ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2, 5-6); egli ci ha riconciliati tutti «con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l'inimicizia» (Ef 2, 14-16). Soltanto quando viene levato in alto da terra, attira tutti a sé (cfr. Gv 12, 32) e compie l'unità tra cielo e terra. Egli ci ha schiuso il rapporto diretto con il Padre attraverso il più totale annientamento di sé (cfr. Fil 2).
Non possiamo essere presbiteri se non partecipando di questo stesso mistero, configurando la nostra vita a quella del Crocifisso e Risorto. In termini paolini, ci è chiesto di essere «con-morti» e «con-risorti» con Cristo. Lo ricorda lo stesso rito dell'ordinazione, quando esorta l'ordinando, con riferimento all'annuncio della Parola di Dio: «vivi quello che leggi e annuncia quello che vivi», e riguardo all'Eucaristia: agite quod tractatis. Alter Christus non è soltanto una bellissima formula, ma il dover essere della nostra vita: donare interamente la vita, come lui l'ha donata, al Padre e ai fratelli. Seguendolo in questa via del dono estremo di sé, non avremo la tentazione di collocarci fra i credenti e Dio rivendicando un ruolo da protagonisti, ma saremo pura trasparenza di Cristo, umili strumenti per condurre ciascuno all'incontro personale con il Salvatore. 
È il mistero del «corpo dato», del «sangue versato», che ogni giorno si rinnova nelle nostre mani, mistero di Gesù e insieme mistero di chi lo celebra. Lì riconosciamo e sperimentiamo l'amore infinito di Dio che dà la vita per noi ed impariamo ad amare dando anche noi la vita.
È un amore capace di piegarsi anche oggi sulle nostre piaghe e ferite. Chi di noi, laici e sacerdoti, non vede in sé o attorno a sé situazioni di dolore, di prova? Fallimenti, malattie, perdite del lavoro, insuccessi nella vita familiare, oppure la sensazione di inadeguatezza di fronte alle nuove sfide pastorali. Il negativo che c'è stato o c'è nella nostra vita viene incenerito dall'amore che ogni giorno ritroviamo nel «pane spezzato» e nel «sangue versato»: è l'amore pieno di misericordia che Dio ha per noi, e nel quale crediamo fermamente, chiedendo la forza per una risposta il più generosa possibile.
Sento rivolto anche a me, personalmente, questo invito ad amare. Come tutti sapete, nel cuore della Santa Sede viviamo un momento tutto «particolare», nel quale avvertiamo che è posta in dubbio la nostra credibilità ed è messa alla prova la fiducia di tanti cristiani. Abbandoneremo la Chiesa perché la vediamo nei suoi limiti umani? O non sarà proprio questo il momento di amarla ancora di più, di esserle vicini, di essere pronti ad offrire per essa la nostra vita? Proprio ora occorre dare la vita per la Chiesa e rimanere radicati in Cristo, senza lasciarci condizionare da chi ha altre chiavi di lettura, rispondenti ad ottiche a noi del tutto estranee. Per me questa situazione diventa un appello ad amare di più. So di contare sulla vostra unità e sulle vostre preghiere.
La via evangelica percorsa da Gesù nel suo sacerdozio ci conduce ancora oltre. 
Le relazioni d'amore reciproco dovrebbero giungere a informare ogni ambito della vita sociale, dalla famiglia ai luoghi di lavoro, dalla scuola ai luoghi della politica. Ma prima di tutto, questa logica dell'amore deve segnare di sé l'ambito ecclesiale: dalla comunità parrocchiale alla vita associativa dei diversi gruppi pastorali; dal seminario al presbiterio diocesano. Una relazione fatta di condivisione della fede, di accoglienza, di servizio, fino a portare i pesi gli uni degli altri, a cercare il bene vicendevole, ad essere misericordiosi e a perdonarci, anche a correggerci, senza però mai giudicarci.
Soltanto per questa «via evangelica» dell'amore reciproco possiamo raggiungere la perfezione dell'amore, quello trinitario: «Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4, 12).
Questi comandamenti non sono «gravosi», come ha appena spiegato san Giovanni nel brano tratto dalla sua prima lettera; non sono gravosi perché già scritti nel nostro cuore. Dio stesso ve li ha depositati, come seme che attende di crescere, maturare e portare frutti.
Non abbiamo tempo per rimpianti o per ripiegamenti sui nostri eventuali errori. Il tempo che ci è dato è per uscire fuori di noi e vivere per Dio, servire con generosità il nostro prossimo, costruire con impegno la società, lavorare con passione per il bene della Chiesa. Una sola cosa ci è domandata, quella per la quale siamo stati creati, quella sola dà senso alla nostra vita: amare, nelle mille sfumature che solo l'amore sa inventare; quell'amore che «non è invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità»; quell'amore che «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13, 4-7).
Cari fratelli, il seminario esiste per formare uomini con questa visione di vita. Nel seminario viene dato il tempo per vivere secondo la scuola del Vangelo e avere sacerdoti appassionati per l'espansione del Regno di Dio.
Anche la Sardegna ha bisogno di uomini così plasmati. Anche nella nostra isola, infatti, con il diffondersi dell'indifferentismo religioso, del relativismo morale e dello stesso edonismo, viene intaccato quell'humus che faceva della nostra terra un baluardo contro le correnti distruttive del nostro sentire cristiano. Per questo abbiamo bisogno più che mai di uomini che sappiano, con la vita e con la parola, costruire autentiche comunità cristiane ove si scopra la bellezza del Vangelo.

(©L'Osservatore Romano 24 giugno 2012)

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