Intervento del cardinale presidente della fondazione Oasis a Londra
La questione della verità nella società plurale
Il cardinale arcivescovo di Milano, in qualità di presidente della fondazione internazionale Oasis, terrà domani, giovedì 15, a Londra due interventi su religione, società plurale e bene comune. Nella mattina parlerà a Westminster, presso la Camera dei Lords, nel pomeriggio interverrà a una conferenza presso l'Heythrop College. Anticipiamo ampi stralci del primo intervento.
di Angelo Scola
Credo si possa affermare che la presenza musulmana pone, molto più di altre, una sfida all'attuale assetto dell'Occidente. È un fatto e negarlo per timore di suonare scortesi sarebbe soltanto una forma di rimozione che non porta nulla di buono. A mio avviso due sono le ragioni principali di questa difficoltà. Prima di tutto, l'islam, pur richiamandosi con chiarezza alla tradizione biblica, se ne distanzia su diversi punti, non potendo essere inteso come una variante interna al cristianesimo. È ciò che, se non erro, i musulmani stessi affermano quando dichiarano che l'islam rappresenta il ritorno a un monoteismo abramitico antecedente al cristianesimo e all'ebraismo storici, o se volete una loro riforma, secondo l'acuta espressione di Joseph Van Ess. Dunque, malgrado le evidenti somiglianze, l'islam introduce nelle società occidentali una differenza comparativamente assai maggiore rispetto a quella esistente tra le diverse confessioni cristiane, per gestire la quale è storicamente nato l'assetto costituzionale dell'Europa moderna, poi esteso a comprendere ebrei e non-credenti. D'altra parte l'islam mantiene ferma una “pretesa” veritativa universale che la maggior parte delle religioni orientali non esprimono con uguale forza. Tale connubio tra una tensione universalistica analoga a quella cristiana e una differente visione del mondo costituisce la peculiarità della condizione dei credenti musulmani nell'Occidente contemporaneo. Con la loro semplice presenza, come singoli e come comunità, essi pongono il problema della convivenza di differenti mondovisioni universali nella sfera pubblica.
Quando qualche anno fa ho iniziato a parlare del processo di “meticciato di civiltà e di culture”, molti in Italia hanno faticato a capire a che cosa mi stessi riferendo. Ma è un'evidenza empirica come siano aumentati i conflitti, talvolta per effetto proprio di quelle politiche che avevano l'obiettivo di evitarli. A me pare che finora sia stato privilegiato in questo campo un approccio pragmatico. Il problema è stato confinare la diversità (anche fisicamente, nel caso di alcune politiche multiculturali) e limitare i conflitti, anche attraverso una concezione riduttiva del dialogo come contenimento della violenza. Certamente un obiettivo condivisibile, ma l'illuminazione culturale di cui parlavo all'inizio vorrebbe andare un poco oltre gli slogan tipo “crediamo tutti in un solo dio”, o “il problema non sono le religioni, ma i politici che strumentalizzano le religioni”.
Per Oasis il punto di partenza per impostare adeguatamente la relazione tra i vari soggetti personali e comunitari in una società plurale risiede nel principio di comunicazione. Come si capirà, qui il termine è inteso nel senso più forte possibile, come un fondamentale “mettere in comune” (che per i cristiani è riflesso della comunicazione più radicale che esista, quella tra le persone della Santissima Trinità). Comunicazione è propriamente un narrarsi e lasciarsi narrare in vista di un riconoscimento reciproco. Proprio per la sua natura profonda, tale comunicazione non può mai essere presa come un dato scontato, ma va considerata come il frutto di una scelta, anche se talvolta largamente implicita. Si può perciò certamente parlare in proposito, come fa Alan Patten, di un good of communication. Esso rappresenta anche il fatto politico primario. In effetti, e malgrado tutti i tentativi per dimostrare il contrario, per una vita in società occorre un'idea di bene attorno alla quale tutti possano riconoscersi. Ma in un contesto plurale non si può pensare di dedurre tale idea a partire da una visione condivisa del mondo. L'impresa fallì già nel 1947 quando si pose il problema in sede di Nazioni Unite. Che cosa dunque resta di comune? Resta il bene stesso dell'essere in comune, o se si preferisce, il bene pratico dell'essere insieme. Tale concetto, com'è noto, è centrale nel magistero sociale di Giovanni Paolo II, che, in vari campi, ha sempre insistito sul bene primario costituito da questo essere insieme.
Questa base comunicativa potrebbe apparire molto esigua, ma in realtà chi dice comunicazione dice una serie di condizioni strutturali: per comunicare infatti occorre riconoscere l'altro come interlocutore a pieno titolo, senza discriminazione, con giustizia. Ognuna di queste condizioni implica una certa concezione della persona umana (il termine “persona” mi pare qui in certa misura obbligato) e un preciso assetto pratico della società. In fatto di comunicazione, non tutto è uguale a tutto. Ci si potrebbe domandare polemicamente se tale volontà di comunicazione esista realmente in società sempre più insicure e parcellizzate e non si può negare che diversi gruppi siano oggi tentati dalla chiusura identitaria. Tuttavia, come mostra la recentissima Immigrant Citizens Survey presentata lo scorso maggio a Bruxelles, emerge tra gli immigrati anche un fortissimo desiderio di diventare cittadini del Paese di residenza. Questo dato, per quanto contraddetto da tendenze opposte, indica la presenza di uno spazio di comunicazione possibile. Il suo luogo primario è naturalmente una società civile che funzioni adeguatamente.
È chiaro peraltro che nella narrazione reciproca i diversi soggetti potranno e anzi saranno invitati ad attingere di volta in volta alle tradizioni a cui appartengono, siano esse religiose o laiche, arricchendo il consenso di ulteriori elementi. Ma con tutti sarà possibile far valere il principio di comunicazione, che consentirà al legislatore, nel caso in cui sia necessario, di adottare anche misure repressive, volte a salvaguardare il bene dell'essere insieme da deviazioni che potrebbero metterlo in pericolo, come argomenta in particolare Habermas. E tra le deviazioni figurano oggi anche le pratiche distorte di religiosità, come il fondamentalismo. In effetti, il principio di comunicazione interpella le stesse comunità religiose e la loro adeguatezza a sostenere la strutturazione di una società plurale.
Penso non sia difficile cogliere una certa sintonia tra la valorizzazione della comunicazione tra soggetti concreti e la percezione del ruolo positivo delle religioni che da circa un decennio si è diffusa tra gli studiosi e gli operatori dei diritti umani, soprattutto in ambito anglofono. Com'è noto, si è passati da una visione in cui le religioni erano considerate come parte del problema a un'altra in cui esse sono viste come parte della soluzione, per le risorse di senso che sanno mobilitare. Ovviamente per Oasis la capacità di mobilitazione delle religioni non è legata alla persistenza di società arcaiche, che hanno ancora bisogno di una rappresentazione mito-poietica del mondo (riduzione sociologistica della religione) ma deriva dal fatto che i valori, tutti i valori, sono espressioni di tradizioni culturali. Essi dicono, con maggiore o minore chiarezza, l'universale, ma sempre a partire da un'esperienza concreta e storicamente determinata.
Proprio per questo il consenso pratico non dovrebbe avere come scopo l'elaborazione di una super-religione che si sostituisca alle fedi storiche, ma quello di una coesistenza arricchente tra i fedeli delle diverse religioni. Tale coesistenza lascia del tutto intatta la questione se una di esse, per noi la fede in Gesù Cristo, Verità vivente e personale, sia in grado di accogliere in sé e compiere le verità delle altre. A ben guardare, è proprio su questo appassionante quesito, non su altro, che si gioca il dialogo interreligioso autentico, come anche il confronto con i non credenti, fin nel dettaglio delle questioni antropologiche ed etiche più scottanti, dal significato del matrimonio all'aborto o all'eutanasia. Ma perché un tale confronto possa esplicarsi in tutte le sue potenzialità, occorre riconoscere quel bene che precede e comunque accomuna, il bene della comunicazione appunto.
L'esperienza di Oasis in Medio Oriente mi ha convinto che questo genere di comunicazione permette un incontro profondo, nel quale ciascuno può presentarsi per quello che è, certo partendo sempre dal necessario prerequisito di un minimo di strumentazione culturale e avendo a cuore la “traducibilità” della propria posizione. Come disse una volta un affermato studioso dopo aver partecipato a un incontro di Oasis, «la vostra appartenenza è chiara: questo vi espone al rischio di litigare di più, ma vi rende anche più interessanti».
Tuttavia, quando si parla di queste cose in Occidente, l'effetto, a pelle, è diverso: si registra una diffusa sfiducia. Mi sto orientando a pensare che ciò dipenda dal fatto che in diversi settori della società attuale è stato del tutto rimosso il problema della verità in se stessa e nel suo rapporto con la libertà, ovvero di ciò che ci riguarda in profondità come esseri umani. Certo anche senza tensione alla verità la comunicazione rimane possibile (in caso contrario contraddirei l'assunto che il principio dell'essere insieme sia una base sufficiente per la convivenza), ma tale comunicazione appare allora gravemente amputata, ridotta a un piano totalmente utilitaristico. Anche qui, riscontro una parziale sintonia con l'affermazione, ripetuta di tanto in tanto, che nelle società più secolarizzate i credenti si percepirebbero più vicini: malgrado le differenze, essi avvertirebbero una comunanza di fondo rispetto a uno stile di vita che estromette per principio la questione della verità. In realtà occorre procedere con grande cautela in una tale diagnosi, soprattutto perché essa mi pare celare non di rado tendenze a un “anti-moderno” che rimetterebbero in discussione le indubitabili acquisizioni della modernità. Ben diverso, come ricorderete, è stato il giudizio che il Santo Padre ha portato su di esse in occasione dello storico incontro con le autorità civili presso la Westminster Hall. Ma l'affermazione circa la singolare condizione dei credenti in una società secolarizzata racchiude in ogni caso un elemento positivo: prende sul serio l'ipotesi dell'esistenza della verità, renda più arduo, ma anche più affascinante e umanamente più stimolante il processo comunicativo. Altrimenti resta soltanto l'utile, che è sempre di corto respiro. Quanto corto sia il respiro lo vediamo oggi benissimo nel doloroso travaglio in cui si situa la crisi economica, la cui portata è lungi dall'essere misurata adeguatamente. Essa infatti rappresenta la radicale confutazione di un certo modo d'intendere l'humanum. Una confutazione che non avviene (né potrebbe avvenire) sul piano delle idee, ma su quello della fattualità, degli spread, del debito e della recessione. Il fallimento pratico è qui anche fallimento teoretico, essendo la prassi l'unica realtà ancora comprensibile a una ragione che ha amputato se stessa.
(©L'Osservatore Romano 15 novembre 2012)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento