Per ricordare il centenario della nascita del futuro Papa, «L'Osservatore Romano» e il «Messaggero di sant'Antonio» hanno organizzato un convegno nell'Aula vecchia del Sinodo in Vaticano
Quell'autorità alla portata di tutti
di Giulia Galeotti
«Chi era Giovanni Paolo I? Perché affascinò immediatamente non solo i fedeli cattolici? Perché colpì così tanto il suo modo di parlare?». Con queste domande, il direttore del nostro giornale ha aperto, nell'Aula vecchia del Sinodo in Vaticano, giovedì 8 novembre, il convegno «Ostensus magis quam datus. A cento anni dalla nascita di Albino Luciani».
Organizzato da «L'Osservatore Romano» e dal «Messaggero di sant'Antonio», l'incontro -- il cui titolo è stato tratto dalla lapide sepolcrale di Leone xi, qui ad summam Ecclesiae Dei foelicitatem ostensus magis quam datus (“che per la più grande felicità della Chiesa di Dio fu mostrato più che dato” -- è stato l'occasione per ricordare (a chi visse i trentatré giorni) o per raccontare (a chi è nato dopo) chi fu veramente quell'«uomo venuto dal Veneto», e non solo per nascita. Come ha infatti ricordato Gianpaolo Romanato, Giovanni Paolo I fu «l'unico Papa, dei quattro veneti saliti al soglio pontificio dal 1789 in poi, la cui carriera antecedente l'elezione si svolse interamente ed esclusivamente nella regione d'origine». Al convegno erano presenti i cardinali Giovanni Coppa e Raffaele Farina, l'arcivescovo Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato, con l'assessore monsignor Peter Bryan Wells, l'arcivescovo Celso Morga Iruzubieta, il vescovo Giuseppe Sciacca, altri prelati e alcuni ambasciatori accreditati presso la Santa Sede.
Albino Luciani nacque a Forno di Canale (oggi Canale d'Agordo) il 17 ottobre 1912 in una famiglia poverissima, il cui peso quotidiano era retto dalla madre (come tanti altri uomini del luogo, infatti, il padre era emigrato in cerca di lavoro). Se dunque l'ambiente di origine di Luciani fu popolare, tradizionale, non ancora sfiorato dalla modernizzazione e segnato dalle difficoltà, fu però anche un ambiente in cui la Chiesa rappresentava il solo punto di riferimento.
Luciani entrò in seminario a undici anni e ne uscì prete a ventitré: vi imparò una severa disciplina di vita e una concezione pastorale della funzione della Chiesa. Una concezione fondata su tre presupposti: distacco dal mondo, obbedienza ai superiori, fedeltà assoluta all'istituzione, tre presupposti che rimasero il faro di tutta la sua vita fino al papato.
A questo quadro egli aggiunse però un tratto molto personale: l'amplissima curiosità intellettuale e l'inesauribile interesse per la lettura (un interesse -- ha ricordato Romanato -- che impensierì il suo parroco, che arrivò a «trepidare» per la sua vocazione). La catalogazione della biblioteca del paese natale compiuta dal chierico Luciani durante le vacanze estive, ad esempio, testimonia una capacità di lettura, assimilazione e giudizio inconsueti nel clero veneto del suo tempo, specie in un giovane seminarista.
L'amore per i libri diede un timbro inconfondibile alla sua azione pastorale, arricchendola di citazioni e riferimenti: per spiegare situazioni e concetti, Luciani inseriva di continuo -- si trattasse di articoli o di omelie -- reminiscenze letterarie. Esopo, La Fontaine, i fratelli Grimm, Mark Twain (il prediletto), Charles Dickens, Paul Bourget e Alphonse Daudet, Bernanos e Claudel, Chesterton, Anatole France, Papini, Solovev, Trilussa, Bernardino da Siena, Piero Bargellini e Pierre l'Ermite (né mancarono musica rock e fumetti).
Tutto questo, però, sempre restando in un disciplinato allineamento con la Chiesa del tempo: «Per quanto fosse forte in me la passione di leggere, di conoscere e di essere aggiornato -- scriverà poi -- non ero un prete di avanguardia o di frontiera; per il mio senso dell'obbedienza, della disciplina e del rispetto del Magistero del Papa e dei Vescovi». Albino Luciani non fu insomma solo un prete di montagna. «Era di più. E il di più fu il frutto dei suoi sforzi di autodidatta, delle riflessioni che veniva facendo sui libri che divorava e che allargavano lo sfondo altrimenti limitato della sua esperienza di vita» ha detto Romanato.
Da Papa, ripropose lo stile comunicativo, i temi e gli atteggiamenti che erano sempre stati suoi da quando era prete della diocesi di Belluno e Feltre. E lo fece consapevolmente: sapeva bene che con l'avanzare della sua carriera ecclesiastica il pubblico si era venuto progressivamente allargando e che, almeno in parte, aveva ben altre aspettative.
«Il primo vero esordio pubblico di Albino Luciani come Papa -- ha ricordato Roberto Pertici -- ebbe luogo la mattina di domenica 27 agosto 1978. La sera precedente era comparso alla loggia centrale della basilica vaticana e, secondo la prassi, si era limitato a impartire la benedizione urbi et orbi. Sembra che avesse espresso a monsignor Virgilio Noè, allora maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, la volontà di dire anche qualche parola, ma che ne fosse stato sconsigliato: il cerimoniale non lo prevedeva. Subito dopo, tuttavia, il neo-eletto aveva avanzato un'altra inusuale richiesta: che le telecamere seguissero l'indomani la sua prima mattina da Papa, l'allocuzione ai cardinali riuniti nella Sistina e poi l'Angelus recitato in piazza San Pietro. Ma se l'allocuzione ebbe un impianto ancora tradizionale (latino e plurale maiestatico), completamente innovativo fu invece l'Angelus, eccezionalmente pronunciato dalla loggia centrale. Nessuno dei giornalisti sapeva cosa il Papa avrebbe detto, perché l'ufficio stampa vaticano non aveva distribuito alcun testo. Ci si attendeva che qualcuno gli mettesse in mano un discorso preparato e invece il Pontefice iniziò a parlare a braccio. Non usò alcun incipit tradizionale, ma cominciò, come si direbbe in gergo giornalistico, al netto: “Ieri mattina io sono andato alla [cappella] Sistina a votare tranquillamente. Mai avrei immaginato quello che stava per succedere”».
Il brevissimo pontificato di Luciani, il Papa capace di parlare a braccio senza che però questo significasse mai improvvisazione, ha determinato -- lo ha dimostrato chiaramente Pertici -- un cambiamento radicale e irreversibile nei modi della comunicazione pontificia.
Precocissimo giornalista (nel 1960 si sofferma a lungo su «la parola di Dio “incartata”», cioè sulla possibilità di fare dei giornali un veicolo di evangelizzazione) e poi Papa a suo agio davanti alla telecamera, Luciani fu «in toto un uomo del Novecento». Ebbe sempre la consapevolezza del ruolo centrale del sistema mediatico nella vita contemporanea e della necessità che laici ed ecclesiastici se ne servissero per la loro attività di apostolato.
Non ignorando la pressione che ormai i media riuscivano a esercitare anche nel mondo cattolico, volle trovare altri mezzi per comunicare: e «li individuò nella confidenza e, al tempo stesso, nel rispetto che, proprio per quell'atteggiamento inedito, riusciva a ispirare. Si propose come il simbolo di un'autorità ormai alla portata di tutti, ma che proprio su questo tratto di comprensione e di umanità personali, poteva ribadire con chiarezza e con forza i principi della fede cristiana».
Universalmente noto come il Papa del sorriso, Luciani sapeva benissimo di vivere in un momento non facile. «Cyrano de Bergerac -- scrisse nel 1977 -- ebbe una tentazione: farsi dei nemici a ogni costo. Ciò per reazione: vedeva troppa gente farsi amici a costo di sacrificare la coerenza e la stessa decenza. La tentazione di Cyrano, quasi quasi, ritorna». Luciani sapeva -- ha proseguito Pertici -- che le sue polemiche gli stavano facendo il vuoto intorno, ma non tentennava: «Cosa fareste al mio posto? Dovrei interdirmi ogni accenno agli errori o alle opinioni pericolose messe in giro? Mi pare di no, tradirei la mia missione e il popolo cristiano, il cui primo diritto è di sapere con chiarezza quali sono le virtù rivelate da Dio». Ma in Luciani la contrapposizione al mondo non ebbe mai i toni da crociata di tanta pastorale del tempo. Il suo fu sempre uno stile diverso, leggero e mai arcigno.
Questo stile era già presente nella rubrica (presto divenuta popolarissima) che il patriarca di Venezia tenne dal maggio 1971 su il «Messaggero di sant'Antonio», di cui è stato -- stando al suo attuale direttore, padre Ugo Sartorio -- «il più illustre collaboratore». Immediata la scrittura e originale la formula: lettere a personaggi storici, come san Bernardo, e fantastici. A Penelope, ad esempio, il vescovo Luciani scrisse per ben tre volte. Concluso il quadriennio di collaborazione, si decise di raccogliere le quaranta lettere nel libro Illustrissimi, la cui quarta ristampa -- lo ha ricordato padre Sartorio -- uscì pochi giorni dopo la morte di Luciani, con la prefazione di padre Angelo Beghetto (allora direttore del mensile veneto): «Questa quarta ristampa di Illustrissimi esce mentre tutti siamo ancora coinvolti nel mistero della morte di Papa Albino Luciani. È un'edizione che assume un particolare significato perché egli stesso ha voluto rivedere il suo libro e apportarvi alcune correzioni, pochi giorni prima di lasciarci. Forse era presagio che questo sarebbe stato il suo testamento umano, spirituale e pastorale».
Cinque allocuzioni domenicali, quattro catechesi e dodici discorsi costituiscono l'insieme delle quattro settimane di dottrina di Giovanni Paolo I. Ma di tutte le sue parole, la frase che è passata alla storia è l'affermazione contenuta nell'Angelus del 10 settembre: «Dio è papà; più ancora è madre». Su questa espressione si è in particolare soffermata con finezza e profondità Sylvie Barnay.
«Colpisce constatare come la rete di metafore che attraversa gli scritti del futuro Giovanni Paolo I privilegi nettamente quelle della paternità, della maternità, della coniugalità e dell'infanzia. Lungi da ogni forma di aneddotismo -- ha spiegato Barnay -- questa struttura portante sembra testimoniare una più profonda formulazione dottrinale sui rapporti tra Dio e l'uomo alla luce di un'antropologia della genitorialità. Le due funzioni complementari che ognuna delle figure parentali per tradizione esercita sono qui chiaramente esposte: l'affetto materno e l'autorità paterna. Conciliarle è indispensabile. Nessuna affermazione dottrinale può essere fatta senza il ricorso alternativo a questi due atteggiamenti di genitorialità, facendo attenzione a non confondere i ruoli e i generi».
Presentando la visione di un Dio madre «ancor più» che padre, Luciani non ratificò in nulla le teologie femministe, ma si inserì invece -- come ha dimostrato Barnay -- nel solco di una tradizione antica (sembra sia stato Clemente Alessandrino il primo padre della Chiesa a stabilire un parallelismo tra paternità e maternità di Dio). Utilizzando un'analogia familiare -- e avendo probabilmente in mente l'esempio materno (Romanato) -- propose innanzitutto un'immagine di Dio che scaturisce da un'immagine dell'umanità nella sua totalità, comprendendo le caratteristiche dei due sessi. Dio è padre e madre nel rapporto con le sue creature.
Un altro punto affrontato variamente dai relatori è stato quello -- cruciale -- del rapporto di Luciani con il Vaticano II. Pur non avendo mai preso la parola in aula, egli aveva vissuto intensamente la vicenda conciliare: l'incontro con vescovi di ogni parte del mondo, di lingue e culture molteplici, il confronto con culture teologiche ed ecclesiali diverse, incise sulla sua personalità. «Io sono un convertito del Concilio», era solito ripetere ai suoi diretti collaboratori, anche se -- lo hanno ricordato sia Romanato che Pertici -- fu restio a concepire l'evento conciliare all'insegna della discontinuità e della rottura con la precedente vita della Chiesa. «Era un vescovo che credeva nel concilio ma ne rifiutava gli eccessi, che interpretava l'autorità con garbo e gentilezza, ma senza rinunciare a nessuna delle sue prerogative» (Romanato).
Già la scelta del nome, del resto, era stata eloquentissima: scegliendo di chiamarsi come i due predecessori, affermò subito che il suo obiettivo era di ricevere e trasmettere l'eredità del concilio. Una sfida di tutto rispetto, da gestire evitando tanto le fughe in avanti dei novatori, quanto le fughe all'indietro dei tradizionalisti.
Chi fu dunque davvero Giovanni Paolo I? Chi fu davvero quel Papa capace di sorridere anche con i suoi inconfondibili occhi vispi e profondi? Priva di senso la scultura edificata per decenni su ignoranza, sensazionalismo e luoghi comuni, e che ha raffigurato quei trentatré giorni attraverso l'immagine del Papa di campagna, bonaccione e umile, assassinato nel sonno dagli intrighi dei palazzi vaticani (un aspetto, quest'ultimo, indagato dallo scrittore spagnolo Juan Manuel de Prada, che ha individuato le origini di questo “sottogenere letterario” nel londinese William Frederick Rolfe, soprannominato Baron Corvo, autore del romanzo Adriano VII del 1904).
Il sacerdote umile, dimesso, gentile e poco appariscente, infatti, nascondeva in realtà una personalità originale, una cultura autodidatta solida e profonda, una inconsueta curiosità intellettuale, una consapevolezza della modernità maturata attraverso una vita intera vissuta osservando il mondo dal basso e non dall'alto. Era un vescovo tradizionale, ma capace di guardare con occhio lucido al nuovo che veniva avanti: assicurare il rinnovamento della Chiesa, nella continuità dell'istituzione. Tradizione e vitalità al contempo.
«Albino Luciani è stato davvero un uomo ostensus magis quam datus. È stato, nella sua brevissima apparizione, una visita di Dio alla sua Chiesa» ha esordito, tirando le fila della giornata, il suo attuale successore a Venezia, il patriarca Francesco Moraglia. «Questo figlio della terra veneta -- ha proseguito -- fu un uomo di fede, un credente, un sacerdote che cercò sempre di annunciare il Vangelo senza rinnegarlo, senza scendere a compromessi. È questa la luce che lo ha illuminato da quando era un giovane seminarista fino al Papato».
Certo, il tempo del Pontificato di Giovanni Paolo I è stato davvero breve («e noi esseri umani fatichiamo sempre a comprendere i fatti troppo brevi», ha detto il patriarca). «Se questo solido figlio del cattolicesimo veneto -- aveva concluso Romanato -- sarebbe stato un vigoroso uomo di governo come Pio X, un geniale innovatore come Giovanni XXIII o un arcigno conservatore come Gregorio XVI, rimane quesito cui è impossibile rispondere».
L'unico fatto certo è che il suo brevissimo pontificato è servito ad aprire la strada a una vera rivoluzione: l'accesso al soglio pontificio, dopo quasi mezzo millennio, di un vescovo non italiano. A ricordarlo sono stati in particolare Romanato e il patriarca Moraglia. Lo aveva già scritto nel 2004 il cardinale Ratzinger che, nell'agosto 1978, era stato uno dei suoi elettori.
(©L'Osservatore Romano 9 novembre 2012)
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1 commento:
Ahimé i luoghi comuni allignano anche nella Chiesa.
Definire conservatore Gregorio XVI è un errore oltre che un insulto storico confezionato ad arte dai massoni.
Papa Cappellari fu il Papa delle missioni che restaurò in modo grandioso in tutto l'orbe ,missioni cadute in rovina dopo la soppressione della Compagnia di Gesù e la bufera rivoluzionaria francese.
Ricostruì la Basilica di san paolo fuori le Mura,fu uomo buono e condusse una vita santa ed esemplare.Ripeteva sovente: voglio morire come un frate e non come un sovrano! Nominò vescovi e cardinali eccellenti che avrebbero onorato e illustrato con la vita esemplare la Chiesa:ricordo il Mastai Ferretti(poi Pio IX),il Mezzofanti etc.
In politica fu definito conservatore solo perché si oppose alla rivoluzione trionfante che ci ha condotto al disastro attuale con divorzi,aborti e nozze sodomitiche.Difese intrepido la legalità e la verità:del resto sarebbe come chiedere oggi a Napolitano di abdicare ai suoi diritti!
Onore e gloria a Papa Gregorio XVI!
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