venerdì 18 maggio 2012

Si chiuderà con un concerto alla Sagrada Família la sessione di Barcellona del Cortile dei gentili (Ravasi)


Si chiuderà con un concerto alla Sagrada Família la sessione di Barcellona del Cortile dei gentili 


di Gianfranco Ravasi


«Nessun uomo è un'isola, completo in sé. Ciascuno di noi fa parte di un continente, è un pezzo di terraferma». 
Questa folgorante definizione della persona umana formulata da quel grande poeta spirituale che è stato l'inglese John Donne potrebbe essere intrecciata con una celebre frase “teologica” del suo contemporaneo Quevedo: «Dio è unico ma non è solo». La “personalità” dell'uomo e di Dio si svela nelle parole che s'incrociano in un dialogo.
Per questo l'Antico Testamento si apre con una parola divina che squarcia il silenzio del nulla: «In principio Dio disse: Sia la luce! E la luce fu!». E parallelamente il Nuovo Testamento ha come suo incipit ideale: «In principio era il Verbo», sorgente di vita, di luce, di salvezza. Dio e umanità s'incontrano in parole e opere, con le labbra e le mani, e questo è testimoniato in tutta la Sacra Scrittura che potrebbe essere definita il “libro dei dialoghi”. Non per nulla, accanto alla proclamazione profetica: «Dice il Signore (...) Oracolo del Signore Dio (...) Ascolta Israele!», si ha l'invocazione tutta umana del Salterio: «Signore, ascolta la mia voce!».
Dabar, il termine ebraico che indica la “parola” viva ed efficace, risuona 1.440 volte nell'Antico Testamento, così come il Lògos, la “parola” in greco, costella per 330 volte il Nuovo Testamento. Anzi, nello stesso Nuovo Testamento per trenta volte fiorisce esplicitamente il diàloghismòs/diàloghizomai, vocaboli greci che designano contemporaneamente il dialogare e il pensare, il discutere e il domandare. Il dialogo, come ha insegnato Platone coi suoi capolavori letterari e filosofici, è in incontro (dià) di lògoi, cioè di parole sostanziate di pensiero, ma è anche un penetrare in profondità (dià) il lògos, ossia il discorso frutto di riflessione.
È suggestivo che il ritratto di Gesù che ci è offerto dai Vangeli sia proprio quello di un uomo dei dialoghi. Egli sale il sentiero d'altura del dialogo orante col Padre divino quando si raccoglie in solitudine nel deserto. Ma nello stesso deserto scende dallo zenit celestiale al nadir infernale per dialogare con Satana nella tentazione, assumendo in quell'occasione i canoni della disputa rabbinica. È questa stessa diatriba a reggere il dialogo di Cristo coi i suoi interlocutori ostili, scribi, farisei, sadducei, sacerdoti: in queste controversie che percorrono non poche pagine evangeliche emerge anche il vigore intellettuale delle argomentazioni, segnate spesso dalla spezia efficace dello sdegno.
Il dialogo si fa quasi scontro non solo con Satana, che non di rado interloquisce con Cristo, ma anche con la sofferenza umana. Gesù, come notano gli evangelisti ricorrendo a due verbi greci antitetici, prova infatti sia una tenera e quasi “materna” compassione per i malati, ma anche sdegno e fin collera nei confronti del loro male fisico. E gli scarni dialoghi che intesse con i malati approdano alla liberazione e alla guarigione. Egli non teme di dialogare, anche attraverso le mani “toccandoli”, con quegli “scomunicati” per eccellenza che erano i lebbrosi. Non esita a lasciarsi abbracciare i piedi dalla peccatrice a cui rivolge parole pacate di speranza, così come interpella l'adultera abbandonata dai suoi accusatori sulla spianata del Tempio.
Nell'oscurità della notte va incontro a Nicodemo, uomo in ricerca, e non bada né al sole né alle critiche fermandosi a parlare con una donna eretica e chiacchierata davanti a un pozzo di Samaria, o sedendosi a tavola con pubblicani e peccatori. Il sipario della sua vita terrena si chiude suggellando quelle ultime ore proprio con una serie di dialoghi. Da un lato, ci sono i discorsi intensi e confidenziali coi suoi discepoli nella sala del Cenacolo; d'altro canto, ecco le scarne sue risposte agli interrogatori nelle fredde aule processuali ove si respira l'atmosfera tesa del dramma, fino a quell'estremo dialogo orante col Padre, terribile e dolce al tempo stesso: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (...) Padre, alle tue mani affido il mio spirito».
Ebbene, il dialogo regge anche il Cortile dei gentili, spazio aperto ove i diversi lògoi, i “discorsi”, possono ascoltarsi e confrontarsi. Il dialogo raggiunge il suo vertice supremo attraverso quella lingua universale della mente e del cuore che è la musica. Essa, a credenti e non credenti, vuole offrire un dialogo supremo con l'infinito e l'eterno, l'Oltre e l'Altro rispetto alle parole e ai suoni quotidiani, da cui pure essa parte. 
L'ebreo Elie Wiesel, premio Nobel per la pace, evocava la visione che Giacobbe ebbe a Betel: gli angeli avevano posato una scala che univa cielo e terra e vi scendevano e ascendevano unendo Dio e umanità. Ebbene, concludeva Wiesel, quando gli angeli risalirono in cielo, dimenticarono di ritirare quella scala. 
Essa è rimasta sulla terra ed è costituita proprio dalla scala musicale che ci fa dialogare con la trascendenza e col mistero. Su quella scala di armonie, come cantava un poeta agnostico francese Paul Eluard, «noi verremo alla meta non a uno a uno, ma a due a due. E se saliremo a due a due, ci conosceremo e ci ameremo. E i nostri figli un giorno rideranno di quella leggenda nera ormai superata che parlava di un uomo che piange in solitudine».

(©L'Osservatore Romano 17 maggio 2012)

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