Vescovi, nessun obbligo di denuncia di fronte a presunti casi di pedofilia
Ma è importante la cooperazione dei presuli con le autorità civili
Nina Fabrizio
ROMA
Non c'è obbligo di denuncia per i vescovi di fronte a presunti casi di pedofilia ma l'indicazione che è «importante» la «cooperazione» con le autorità civili. È questo in sintesi il contenuto delle Linee guida sui casi di abusi elaborate dalla Cei e presentate ieri nell'ambito dei lavori dell'assemblea generale dei vescovi, esattamente allo scadere dei tempi previsti dalla Congregazione per la dottrina della Fede. Era infatti il 3 maggio dell'anno scorso, quando l'ex Sant'Uffizio aveva dato un anno di tempo alle singole conferenze episcopali per adeguarsi con documenti propri alle indicazioni del Vaticano in materia di pedofilia. Nodo principale, da sciogliere Paese per Paese, il rapporto tra la chiesa locale e l'autorità civile. Un nodo che ora, nel caso dell'Italia, mentre per la prima volta la Cei fornisce dati precisi sugli abusi compiuti nel nostro Paese (135 dal 2000), va a sciogliersi nel senso di «un incoraggiamento» alla collaborazione ma senza obbligo alcuno. «Nell'ordinamento italiano il vescovo – si legge nelle Linee guida, passate al vaglio preventivo della Congregazione della Fede –, non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, non ha l'obbligo giuridico di denunciare all'autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti».
Un passaggio ribadito in conferenza stampa da mons. Mariano Crociata, segretario generale della Cei, che lo ha spiegato così: «Noi non possiamo chiedere a un vescovo di diventare un pubblico ufficiale. Ciò non significa che sia impedito a prendere l'iniziativa, anzi. Ma formalizzarlo avrebbe significato introdurre qualcosa che contrasta con l'ordinamento».
«C'è la volontà assoluta di collaborare – ha comunque sottolineato il presule – che sta già nell'azione ordinaria». E che nel documento è sottolineata al capitolo II, paragrafo 5 quando si dice che «risulterà importante la cooperazione del vescovo con l'autorità civile, nell'ambito delle rispettive competenze e nel rispetto della normativa concordataria e civile». Mons. Crociata ha poi rilevato una situazione particolare per la Chiesa italiana poichè, ha spiegato, «la vicinanza con la Congregazione per la Dottrina della Fede comporta un rapporto immediato» che «consente di tenere sotto controllo il territorio». «La situazione – ha aggiunto – è obiettivamente governata in modo adeguato». Intanto, emergono anche dati precisi sul fenomeno pedofilia in Italia. Fino ad un anno fa, infatti, la Cei aveva parlato genericamente di un centinaio di casi. Ora, le cifre puntuali. I casi «emersi» e «segnalati all'ex Sant'Uffizio», dal 2000 ad oggi, sono stati 135. Di questi, per quanto riguarda il processo canonico, 53 sono state le condanne, quattro le assoluzioni e i restanti casi risultano in istruttoria. Per quanto riguarda invece il foro civile, dei 135 casi, 77 sono stati denunciati alla magistratura con 22 condanne in primo grado, 17 in secondo, 21 patteggiamenti, cinque assoluzioni, 12 archiviazioni.
Mons. Crociata ha quindi ricordato l'attenzione della Cei alla prevenzione e alla formazione del clero mentre ha assicurato che «il reinserimento non è un ritorno alla pastorale ordinaria: un prete che ha avuto questi problemi non torna ad avere possibilità di contatto con minori». «È importante – ha commentato – sentirsi tutti parte di uno sforzo collettivo per combattere la piaga della pedofilia che è enorme, si parla di decine di migliaia di pedofili in Italia».
© Copyright Gazzetta del sud, 23 maggio 2012
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