martedì 24 gennaio 2012

Il Gesù vero oltre i neo-modernisti. Intervista a Klaus Berger (Galli)

Il Gesù vero oltre i neo-modernisti

Andrea Galli

Klaus Berger, classe 1940, docente emerito all’università di Heidelberg, è uno dei più autorevoli studiosi del Nuovo Testamento in Germania. È guardato con simpatia dal grande pubblico, con cui ha sempre cercato di tenere aperto un canale di comunicazione – dagli articoli sui quotidiani ai tanti libri divulgativi come Jesus, che nel 2004 ha avuto un riscontro di vendite inusuale. Con i colleghi teologi e biblisti ha invece spesso incrociato le lame, a partire dagli anni ’60 con la sua critica di Rudolf Bultmann e della sua scuola. Il prossimo 9 febbraio, a Roma, sarà lui – con la lectio magistralis> «Gesù mette fine all’invisibilità di Dio» – ad aprire il convegno su Gesù organizzato dal comitato per il Progetto culturale Cei (fino all’11), prosecuzione ideale del simposio su Dio del dicembre 2009.

Professor Berger, la figura di Gesù le appare oggi più chiara o più avvolta nelle nebbie rispetto a quando a iniziato a studiarla?

«Nel corso dei miei studi ho cercato di analizzare criticamente i risultati dell’illuminismo nelle scienze bibliche con i metodi dell’illuminismo stesso. Ne è uscito che circa il 50% dei suoi cosiddetti progressi non è sostenibile. Tra questi figurano le ipotesi sulla non autenticità delle parole di Gesù, sul significato creativo della Pasqua (che sarebbe stata un evento semplicemente mentale), e sulla formazione evoluzionistica dei dogmi cristologici (evemerismo). A mio parere fin dall’inizio Gesù si pone come presenza reale di Dio e agisce con l’autorità di Dio».

In un’intervista del 2009 lei ha criticato il protestantesimo e il cattolicesimo liberali, perché entrambi cercano di omettere la corporeità della passione e della risurrezione. È ancora della stessa opinione?

«Il cristianesimo non è un insieme di dogmi astratti. Poiché Dio stesso soffre, la sofferenza diviene una via verso Dio. Il cristianesimo non è semplicemente sensibile alle sofferenze dell’umanità – malattie e bisogni materiali – ma lega fin dall’inizio la sua posizione critica a una necessaria conseguenza, la sofferenza del martirio; vedasi il vangelo di Marco (8, 33)».

Lei ha scritto un libro sui miracoli di Gesù. In che modo questi si possono affrontare da un punto di vista «scientifico», senza finire nelle secche della demitizzazione?

«I miracoli non si possono spiegare razionalmente, con il semplice principio di causalità. Ma sono convinto che la fenomenologia possa portare oltre la causalità. Con fenomenologia intendo un’apertura fondamentale verso tutti gli aspetti del reale. Chi per principio evita di voler spiegare tutto solo con le presunte leggi della natura o coi canoni della sociologia e della psicologia, si apre alla percezione di un possibile intervento di Dio nel mondo. Questa curiosità e apertura l’ho appresa da Edith Stein e Edmund Husserl, ma anche da Max Scheler. La dimensione invisibile del miracolo, l’indirizzarsi della forza di Dio sull’uomo, non è illusoria, non è fantasia. Decisiva è la domanda su cosa intendiamo con realtà».

Lei ha espresso giudizi taglienti contro coloro che piegano il metodo storico-critico nell’analisi delle Scritture al proprio dissenso nei confronti della Chiesa. È una tendenza ancora diffusa nelle facoltà teologiche?

«Io intendo con “modernismo” il non riuscire più a conciliare la crescita della propria fede con la propria esperienza nel mondo. Mi riferisco a persone che in molte delle loro “espressioni vitali” non riescono più a capire la Chiesa, la sua dogmatica – in particolare la Trinità –, la sua teodicea, il suo insegnamento, l’obbligo del celibato per il clero, eccetera. Di fronte ai dubbi o all’incapacità di conciliare il proprio vissuto con la dottrina, cercano di destrutturare la Bibbia. Così la Trinità viene cancellata o dichiarata una costruzione medievale, il celibato diventa uno stratagemma inventato dalla Chiesa per conservare il proprio patrimonio e per comandare più agevolmente i sacerdoti. Non si comprende come dietro al celibato ci sia invece l’imitazione dello stile di Gesù, come la liturgia deve essere un’imitazione della liturgia celeste, e così per molte altre questioni che riposano sullo schema modello/copia. Anche la presenza reale di Dio nell’Eucaristia non è capita e si cerca di confutarla con l’esegesi, poiché non si ha più il senso della presenza nascosta di Dio. Sotto l’influsso della filosofia di Hegel e dell’idealismo si rifiuta ogni azione di Dio nel mondo».

Come si pone di fronte alla «Third Quest», la cosiddetta «terza fase» della ricerca sul Gesù storico, e ai due libri del Papa su Gesù?

«Nella Third Quest si è fatta strada l’idea che non si possa scindere la Rivelazione dai suoi destinatari. Questo riguarda in particolare il fatto che gli autori dei Vangeli erano giudeo-cristiani. L’ebraismo non viene abrogato, ma resta come la madrepatria di Maria e della Chiesa. A questo tema si è dedicato in particolar modo Benedetto XVI nei suoi due libri, anche per quanto riguarda il processo a Gesù. Con Jacob Neusner il Papa discute a fondo sul rapporto fra il discorso della Montagna e l’etica giudaica. Anch’io nei miei primi libri mi sono sforzato di chiarire l’interpretazione della Legge da parte di Gesù, così come la sua risurrezione come quella di un martire nel contesto dell’ebraismo. Ed è certamente importante che anche un Papa se ne sia occupato».

© Copyright Avvenire, 24 gennaio 2012 consultabile online anche qui.

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