di Inos Biffi
I grandi teologi sono stati per lo più anche dei grandi filosofi, da Agostino ad Anselmo, da Tommaso d'Aquino a Duns Scoto e a tanti altri. E questo non sorprende. Attratta dalla Parola di Dio, la mente umana si esercita -- come afferma il Dottore Angelico -- a indagare con passione sui divini misteri, a metterne in luce e raccoglierne “verosimiglianze” e analogie, a esplorare i sentimenti che essi suscitano. Mirando alla comprensione della fede, l'intelletto trova uno stimolo potente alla riflessione, all'analisi, alle connessioni e agli sviluppi logici, alla sistematicità. La ragione si sente a suo agio nel campo della sacra dottrina; non vi si trova né alterata né smarrita, anche se non può fruire dell'evidenza a cui aspira e che è riservata «a coloro che contemplano l'essenza di Dio», ai beati (Tommaso d'Aquino, Summa contra Gentiles, i, 8).
E il motivo più profondo di un tale agio per la ragione è che la teologia è il campo dell'“essere”, dell'Essere supremo, che è Dio, e delle creature da Lui chiamate a esistere.
Chi è credente è perciò stesso un “realista”; non può confondere il soggetto e l'oggetto; non può essere filosoficamente un “idealista” e neppure può limitare la conoscenza umana al puro fenomeno. Il riconoscimento dell'oggettività dell'essere è implicato nella professione di fede; diversamente tutto il contenuto della Rivelazione divina si sfalderebbe, a cominciare da Dio, «l'Essere perfettissimo, Creatore e Signore di tutte le cose», come recitava il Catechismo di Pio X. «La pienezza dell'essere e di ogni perfezione», Colui che «solo è, da sempre e per sempre», «Essere spirituale, trascendente, onnipotente, eterno, personale, perfetto», come dichiara l'attuale Catechismo della Chiesa Cattolica.
Étienne Gilson annotava: «Quando lo spirito di un giovane cristiano si sveglia alla curiosità metafisica, la fede della sua infanzia l'ha già messo in possesso di risposte vere alla maggior parte delle domande fondamentali. Egli si può ancora chiedere come esse sono vere ed è quello che fanno i filosofi cristiani quando cercano le giustificazioni razionali di tutte le verità rivelate accessibili al lume naturale, ma quando si mettono all'opera i giochi sono già fatti da molto tempo»; e confessava: «Il Simbolo degli Apostoli e il Catechismo della diocesi di Parigi hanno occupato, sin dalla mia infanzia, tutte le posizioni chiave che dominano la conoscenza del mondo. Io credo ancora quello che credevo allora, e senza confondersi affatto con la mia fede, che rigetta qualsiasi miscuglio, la mia filosofia di oggi si trova tutt'intera all'interno di quello che credo». «Il fanciullo a sua insaputa rinnova l'esperienza dei poveri e degli ignoranti d'un tratto forniti dalla prima predicazione del cristianesimo di una visione totale del mondo più completa di quella di qualsiasi filosofia. Si pensi soltanto al Credo delle preghiere quotidiane (...) Esiste un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore dell'universo e suo fine ultimo»; «Così, molto tempo prima di affrontare lo studio della filosofia propriamente detta, il cristiano si impregna di nozioni metafisiche definite» (Le philosophe et la théologie).
Queste, nella misura in cui avvenga la riflessione sul mistero cristiano, si svilupperanno criticamente, comportando la formazione di tutto un fascio di concetti, anche molto sottili e rifiniti. In questo senso si può dire che l'esito di una fede, elaborata in sacra dottrina, e quindi in teologia, è tutto un sapere di natura filosofica.
Al riguardo, tuttavia, non è superfluo osservare che la funzione dei concetti, con gli enunciati che vi sono collegati, non equivarranno mai a una dimostrazione o a una comprensione «per intuizione intellettiva», l'espressione è ancora di Tommaso. Essi non mirano assolutamente a ridurre il mistero rivelato alle dimensioni della ragione. Sono invece espressamente a servizio del mistero, che in sé rimane incomprensibile. Si potrebbe invece dire che mirano in certo modo ad assuefarvi l'intelletto e la sensibilità, perché ne possano ricevere qualche lume o qualche impronta.
Non sono, quindi, i concetti a piegare la Parola di Dio, ma è la Parola di Dio che li suscita, li plasma e, senza deteriorarli o scioglierli, sempre però oltrepassandoli con la sua originalità incontenibile: il linguaggio e il discorso della ragione saranno sempre inadeguati all'ineffabile contenuto della Rivelazione.
Da questo profilo appare meno preciso parlare di una ragione “di fronte” o “in accordo” con la fede. Invece che di accordo ci sembra più rigoroso parlare di “inclusione”: è la fede stessa e quindi la teologia a richiedere e quasi a risvegliare la ragione e la filosofia, al fine di poter «dire Dio».
Due domande e un invito, per terminare. È possibile dalle verità razionali presenti nella scienza sacra istituire un progetto di filosofia in ogni caso razionalmente valido in stesso? Risponderei affermativamente. Non immaginerei una reazione di san Tommaso verso chi volesse raccogliere -- come è avvenuto -- i dati specificamente razionali presenti nella sua opera teologica per ottenerne una sintesi filosofica. È d'altronde vero che quei dati negli scritti teologici di Tommaso come di Bonaventura, e crederei di tutti i dottori medievali, sono presenti in atto o in esercizio teologico, quindi radicati e connessi con la Rivelazione quale oggetto della sacra dottrina. In tal caso sarebbe legittimo parlare di «filosofia cristiana» alla stregua di Gilson? Riterrei di sì, in quanto si tratta di filosofia, specificamente razionale, ma appunto operante nella sacra dottrina.
L'invito, a conclusione, è ai teologi, perché siano tenaci e illuminati nel pensare la fede: un tale impegno non può che risultare estremamente benefico alla ragione e al suo risanamento. E di questo la nostra cultura ha somma necessità.
(©L'Osservatore Romano 14 ottobre 2012)
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