Il segretario generale della Cei sulla ricezione del concilio in Italia
Nella strada tracciata dal Vaticano II
«L'ecclesiologia del concilio Vaticano II e le Chiese in Italia» è stato il tema dell'intervento che il vescovo segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei) ha tenuto nel pomeriggio di venerdì 19 a Fermo, in occasione dell'apertura dell'anno accademico dell'Istituto teologico marchigiano. Ne pubblichiamo ampi stralci.
di Mariano Crociata
È esigenza intrinseca della vita della Chiesa e della riflessione teologica riprendere instancabilmente l'insegnamento conciliare per corrispondere al compito proprio dell'una e dell'altra. E la ragione è presto detta: fuori da ogni formalismo celebrativo e da ogni strumentalizzazione ideologica, un concilio rappresenta il luogo eminente di autorealizzazione e di autocomprensione della Chiesa, e come tale assume un valore normativo per essa. Giovanni Paolo II ha definito il Vaticano II una «bussola» per il nuovo millennio e, ancora di recente, Benedetto XVI ne ha scritto come di un evento che «è stato e rimane un autentico segno di Dio per il nostro tempo». In esso si congiungono storia della rivelazione salvifica e discernimento del tempo in una tensione missionaria aperta al futuro.
Un concilio condensa, dunque, identità e missione della Chiesa in una determinata epoca. Questo vale in maniera singolare per il Vaticano II, poiché a differenza dei concili del passato, per la prima volta esso viene convocato non per difendere una dottrina minacciata, ma per promuovere la missione della Chiesa in questo tempo. In esso l'azione pastorale ordinaria, sotto la guida dei pastori e del loro magistero, viene ricompresa e riproposta in forma massimamente autorevole; perciò la Chiesa di oggi ha bisogno di riferirsi sempre di nuovo al Vaticano II per tenere fede a se stessa. A distanza di cinquant'anni, osserviamo che, pur nella ricchezza già dispiegata, attendiamo ancora di conoscere compiutamente la storia degli effetti di un evento le cui potenzialità solo in misura limitata si sono manifestate. La distanza temporale dal concilio a oggi ha lentamente formato una lente dalla valenza duplice, in quanto ci permette di vedere ma, d'altra parte, rischia anche di deformare. Non possiamo raggiungere l'evento conciliare saltando la storia intercorsa lungo questi anni, ma il compito di conoscerlo effettivamente chiede una costante verifica e una attenzione a tutte le condizioni richieste per farlo.
Quale che sia la considerazione circa il posto che la Chiesa occupa nei documenti conciliari, è indubitabile che l'attenzione di cui viene fatta oggetto è molto grande. Non sarebbe del tutto improprio rileggere i testi anche solo per costruire uno schema avente la Chiesa come soggetto. Ci avvedremmo di un ordine armonico secondo cui essa ripercorre innanzitutto, ad intra, la propria identità e costituzione (e così possiamo trascorrere dall'ascolto della Parola, alla celebrazione dei misteri, al ministero episcopale e al ministero ordinato con le esigenze della sua formazione, alla vita consacrata, ai laici, alle Chiese orientali, al compito missionario, all'ecumenismo), e poi, ad extra, il suo rapporto con il mondo (in linea con il quadro che ne fornisce la Gaudium et spes, e poi con le riprese tematiche su educazione, libertà religiosa, dialogo con le altre religioni, comunicazioni sociali). Mi rendo conto che la distinzione tra ad intra e ad extra è, come detto, schematica, nondimeno essa riesce a trasmettere l'idea di una Chiesa che inseparabilmente riflette su se stessa, si ripensa, nella luce del suo passato e con la coscienza della sua presenza nella storia attuale, alla quale non solo non si sente estranea ma che, piuttosto, assume con senso vivo della sua missione e della sua responsabilità nei confronti dell'umanità intera.
La ricezione del concilio e della sua ecclesiologia non è affatto solamente questione di lettura e conoscenza di testi, ma di comprensione della dottrina definita nei documenti nel quadro della vita della Chiesa nel mondo; conformemente del resto con quanto in maniera icastica insegna la Dei Verbum al n. 8: «così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede». Parlare delle Chiese in Italia alla luce del concilio richiede pertanto una considerazione distinta dei due livelli, certo mai separati, della trasmissione e della ricezione: il livello della conoscenza, della riflessione, dell'esperienza spirituale, e il livello delle trasformazioni istituzionali, sociali ed esistenziali. In termini meramente esemplificativi si potrebbe evocare la distinzione tra Chiesa e Chiese, luogo di una coscienza conciliare che distingue e unisce i livelli di soggettualità ecclesiale, frutto della tematizzazione della collegialità e del rapporto tra Chiesa universale e Chiesa particolare, con la conseguente maturata coscienza della pluralità di Chiese e del loro rapporto, in un senso propriamente pastorale quando si tratta di istanze di tipo regionale o nazionale. Ma accanto a questo, è tutta la Chiesa nelle sue più svariate articolazioni comunitarie che ha conosciuto lo sviluppo degli organismi di partecipazione e di comunione. E poi anche l'esplosione della ministerialità laicale, spesso solamente fattuale, che ha visto comunque crescere la dedizione negli ambiti della liturgia, della catechesi, della carità, della missione anche ad gentes.
Ma questo livello storico, sociale e istituzionale è effetto e interagisce con il livello della conoscenza, che ha molteplici espressioni, non ultimo quello accademico condotto in istituzioni come quelle in cui ci troviamo; tale livello trova un autorevole e incisivo riferimento negli interventi del magistero, alcuni dei quali hanno contrassegnato il cammino del post-concilio: pensiamo alla emanazione del nuovo Codice di diritto canonico e alla pubblicazione del Catechismo della Chiesa cattolica, ambedue attuazione intenzionale di istanze conciliari.
Il concilio per le Chiese in Italia non è un compito concluso, ma nemmeno un lavoro tutto da fare. L'attività della conferenza episcopale può ben essere indicata come espressiva di un cammino che si è fatto strada soprattutto con riferimento agli orientamenti pastorali decennali e con i convegni ecclesiali nazionali. Progetti, esperienze, parole d'ordine, e molto altro ancora, si sono fatti strada plasmando le coscienze, il linguaggio, lo stile di vita, i tempi e le forme dell'azione pastorale di piccole e grandi comunità. C'è da andare avanti con una coscienza nuova dei compiti e delle sfide. Quella attuale è un situazione ecclesiale in movimento che ha nel concilio un punto stabile di riferimento. Da esso proviene allo stesso tempo una lezione di contenuto e di stile: è ciò che le Chiese in Italia stanno imparando e che devono continuare a imparare. Ascolto, celebrazione, missione possono essere considerate parole-chiave che interpellano la Chiesa, in tutte le sue componenti (vescovi, presbiteri, laici) consapevole della divisione che lacera i cristiani (ecumenismo), per farsi carico del cammino dell'uomo sulla terra (con la ricerca della libertà di coscienza, nella diversità religiosa in dialogo, con il suo bisogno di pace).
Se dovessi indicare una prospettiva specifica per questa stagione della vita della Chiesa in Italia, nella sua coniugazione con la coscienza e l'eredità conciliare, direi che essa deve essere cercata nella direzione della categoria di popolo di Dio e in considerazione della persistenza del carattere popolare del cattolicesimo italiano. L'uno e l'altro termine hanno cambiato volto nel corso di questi decenni. “Popolo di Dio” ha perduto quell'aura sociologistica che ne condizionava l'adeguata comprensione; e, d'altra parte, il cattolicesimo italiano è ben lontano dagli anni del trionfalismo degli anni Cinquanta, ultimo riferimento realmente significativo di una condizione sociale ancora in qualche misura religiosamente integrata. Tuttavia l'uno e l'altro aspetto, nella loro evoluzione e con le modificazioni subite, si consegnano a noi come forma specifica di presenza e azione ecclesiale oggi. Più esattamente, l'eredità conciliare ci chiede di non rinnegare mai il carattere pubblico, aperto, accogliente, tendenzialmente universale della proposta cristiana e della presenza di Chiesa, non nel senso di una sua banalizzazione o peggio di una svendita a poco prezzo, ma nel senso del rifiuto di ogni forma di settarismo e di elitarismo: un cristianesimo aperto a tutti ma esigente. Quanto al cattolicesimo popolare, per quanto residuale -- ciò che non è affatto! -- esso denota una dimensione qualitativa, prima che quantitativa, rilevando la persistenza di un tessuto, di un legame, di una sensibilità e di una cultura, che offrono tutte le caratteristiche per un risveglio di fede adeguato alle attese di questo tempo. Se c'è un compito che deve essere considerato affidato alla riflessione teologica e alla responsabilità pastorale nell'Italia di oggi, io ritengo che sia proprio questo. In questo modo, davvero la Chiesa si presenta e ci apparirà sempre più come il contenuto e la prospettiva unificante il concilio e la vita dei credenti, purché non si perda di vista il quadro d'insieme che esso ci ha consegnato.
(©L'Osservatore Romano 21 ottobre 2012)
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