Benedetto XVI ha aperto ufficialmente l'Anno della Fede
ANDREA GAGLIARDUCCI
C'è bisogno di fede. Benedetto XVI lo dice, lo ripete, lo sottolinea nella Messa che inaugura così l'Anno della Fede. Un anno dedicato a riportare l'uomo a Dio. Un anno che segna anche - significativamente - il cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II. Il Papa però ammonisce: «Se oggi la Chiesa propone un nuovo Anno della Fede e la Nuova Evangelizzazione, non è per onorare una ricorrenza, ma perché ce n'è bisogno, ancor più che 50 anni fa. In questi decenni è avanzata una desertificazione spirituale».
Quando scandisce queste parole, piazza San Pietro è piena per metà.
Ai lati dell'altare, i padri del Sinodo della Nuova Evangelizzazione e alcuni dei padri conciliari sopravvissuti. Non tutti hanno potuto rispondere all'appello. Alcuni sono vecchissimi, e in malferme condizioni di salute. Tutti, però, hanno vivo nella memoria un Concilio che doveva rappresentare l'aggiornamento della Chiesa, un nuovo modo di parlare ai segni dei tempi. Rottura e continuità. Continuità nella tradizione della fede, rottura nel modo in cui questa fede viene posta.
Strano a dirsi, la parte della continuità era stata data per scontata dai padri conciliari. Vero che già in alcuni casi si cominciavano a vedere le derive della fede, il nuovo paganesimo che da sempre è il cruccio di Benedetto XVI. Ma è vero anche che il Concilio veniva in un periodo incredibilmente fertile di esperienze di fede. Le prime sperimentazioni dei preti operai in Francia e in Belgio, il dibattito teologico sulla Sacra Scrittura e la sua interpretazione in Germania, il venir fuori della necessità di una prassi del dialogo con le altre religioni, la volontà di definire un cammino ecumenico con le Chiese sorelle. Era un fermento intellettuale che scaturiva dalla fede, e dalla necessità di misurarsi con la fede.
La fede sostenuta dalla ragione. Non è solo il grande argomento di Benedetto XVI. E' l'argomento cui Joseph Ratzinger si è imbevuto durante gli anni da teologo, e come perito del concilio. Perché i padri del Concilio erano prima di tutto uomini di fede.
Uomini così di fede e così ragionevoli da non aver pensato che lo spirito del Concilio si sarebbe misurato sui documenti, non sulle intenzioni. E che con il passare del tempo, quel dibattito sui documenti, quel ragionare sulla fede, sarebbe venuto meno. Anzi, sarebbe arrivata persino l'indifferenza nei confronti della fede.
Così, per molti il Concilio è stato solo impatto sul mondo, soltanto perché nessuno dei documenti conciliari puntava esplicitamente alla questioni della fede. Si parla di liturgia, missione, libertà religiosa, comunicazioni sociali. Ma mai di fede in senso stretto. Ammette il Papa: «Il Concilio Vaticano II non ha voluto mettere a tema la fede in un documento specifico. E tuttavia, esso è stato interamente animato dalla consapevolezza e dal desiderio di doversi, per così dire, immergere nuovamente nel mistero cristiano, per poterlo riproporre efficacemente all'uomo contemporaneo».
Una consapevolezza che è stata in qualche modo soffocata dal dibattito post-conciliare. Già mercoledì, all'udienza generale, il Papa ha invitato a leggere direttamente i documenti del Concilio, a non lasciarsi fuorviare dalle varie pubblicazioni che hanno nascosto, più che diffondere, i documenti.
E che c'è bisogno di fede lo sanno anche i membri della Chiese sorelle. Lo sa Rowan Williams, primate anglicano fino a dicembre, che al sinodo ha parlato della rivoluzione della contemplazione. Lo sa Bartolomeo I, che ha auspicato la piena e visibile unità tra i cristiani. C'è bisogno di fede perché lo spirito del Concilio non vada perduto.
© Copyright La Sicilia, 12 ottobre 2012
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