martedì 23 ottobre 2012
Abbazia di San Galgano: Convegno su temi religiosi e informazione
Abbazia di San Galgano: Convegno su temi religiosi e informazione
Disinformazione su temi strettamente religiosi e su tematiche scientifiche che investono profondi valori etici. Di questo si è parlato al convegno intitolato “Spingitori di cavalieri. San Galgano e la spada della disinformazione”, svoltosi sabato scorso all’Abbazia dedicata al Santo del XII secolo, in Toscana, su iniziativa dell’Ucsi, l'Unione Stampa Cattolica Italiana, con la partecipazione dell’arcivescovo di Siena, mons. Antonio Buoncristiani. Lo storico Eugenio Susi ha illustrato forzature e falsità dei media su San Galgano, non a caso preso come esempio emblematico. Intervenuti, tra gli altri, giornalisti di testate cattoliche e laiche, gli storici Francesco Salvestrini e Fabrizio Dal Passo, il critico televisivo Mariano Sabatini. A moderare il dibattito con Antonello Riccelli, presidente dell’Ucsi Toscana, la nostra collega Fausta Speranza, vicepresidente dell’Ucsi Lazio. Ha seguito i lavori per noi Stefano Leszczynski che ha intervistato mons. Antonio Buoncristiani:
R. – Il problema è nelle prevenzioni che si creano. Quando c’è un’informazione religiosa, subito ci si pone a dire: è qualcosa che mi piace o qualcosa che contrasto? Quindi, non c’è mai quell’oggettività dell’ascolto che dovrebbe esserci. D’altra parte, anche nell’informazione spesso c’è la tendenza a dare un’informazione che serva in una realtà e in un’altra. Lo dico ricordando che viviamo l’Anno della Fede e che forse non ci si rende conto che la fede è qualcosa che dev’essere trasmessa ma non imposta, piuttosto innanzitutto testimoniata. E la fede autorizza ad avere un rapporto totalmente libero da prevenzioni. Quindi, un rapporto di dialogo, di possibilità di non malintesi o altro. E questo mi sembra fondamentale.
D. – Nel contesto del Sinodo, dell’Anno della Fede, del 50.mo del Concilio si è parlato spesso di comunicazione e del problema di correggere qualcosa nella comunicazione anche da parte della Chiesa. Cosa bisognerebbe fare per indirizzare meglio la comunicazione della Chiesa?
R. – Io trovo che l’impegno dei mass-media sia importante e difficile, però, il rapporto della fede, secondo me, non passa innanzitutto attraverso i media: passa attraverso la testimonianza delle persone, perché la fede nasce dal cuore, e l’informazione viene dopo. E’ il cuore che la recepisce in un senso o in un altro. Certamente, dobbiamo dare grande importanza alla fede e alla comunicazione, perché ha grande importanza nella società di oggi.
D. – Quanto c’entra la secolarizzazione nella mistificazione delle questioni religiose?
R. – Tutto quello che è religione, in qualche modo, in molte persone crea un senso di colpa, e quindi c’è sempre la necessità di trovare giustificazioni contro: è un modo di difendersi, perché la parola di Dio “taglia”. E, dinanzi a questo fenomeno, hanno paura tutti quelli che non vogliono essere “tagliati” dalla Parola di Dio… In fondo, la Parola di Dio chiede che tu ti spogli, che ti umilii nel riconoscere che ne hai bisogno, e allora ti cambia.
A 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II, si è preso spunto anche dal libro “Giornalismo e religione” di don Giuseppe Costa, don Giuseppe Merola e Luca Caruso, edito di recente dalla Libreria Editrice Vaticana, che mette sotto esame la stampa laica e la stampa cattolica. Delle cause della disinformazione e delle responsabilità, Stefano Leszczynski ha parlato a San Galgano con il presidente nazionale dell’Ucsi, Andrea Melodia:
R. – Il problema della disinformazione nasce da molteplici cause: di natura economica, culturale ed ideologica. Se si parte da preconcetti, da interessi estranei alla professione, cioè alla corretta informazione, è facile finire nella facile disinformazione. In gran sintesi, io credo che gli strumenti principali che abbiamo per combattere la disinformazione siano la competenza e la responsabilità: sapere di essere al servizio del pubblico, dei cittadini. Noi cattolici, in particolare, siamo al servizio anche della nostra comunità religiosa.
D. – C’è qualche rischio insito nel definirsi "giornalisti cattolici"?
R. – Io non credo che il giornalismo cattolico debba essere sostanzialmente diverso dal giornalismo nei media non cattolici. Cioè, il problema della competenza e della responsabilità è uguale per tutti. E’ chiaro che, nel momento in cui si lavora in un media cattolico, si ha una responsabilità specifica in relazione alla comunità nei confronti della quale si svolge un servizio, che ha il suo sistema di fede, di credenze che vanno ulteriormente sviluppate e rispettate. Però, il problema della responsabilità è generale: vale per tutti.
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